Rome, 24/11/2024

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          Autore del "manuale sul trasferimento dell'azienda" (Giuffrè editore 2006)

   ARTICLES

Condominio: la ripartizione delle spese e l'uso dei beni comuni                                                               Pubblicato su diritto e giustizia (Ed Giuffrè 2005)

Il tetto viene definito come l'insieme delle opere destinate a preservare l'interno dell'edificio dagli agenti atmosferici, nella sua parte superiore.

Il solaio ed il sottotetto, non adempiendo ad alcuna funzione di copertura non vanno ricompresi tra le parti comuni. Per lastrico solare infine si intende la superficie posta sulla sommità dell'edificio che esercita la funzione primaria di protezione dell'edificio medesimo dagli eventi atmosferici, pur potendo essere utilizzato per altri usi, come quello del terrazzo.

 

Il codice civile all'articolo 1117 annovera il tetto tra le parti comuni dell'edificio, la cui proprietà indivisa spetta pro-quota ai singoli condomini.

 

L'articolo 1123 del codice civile in materia di ripartizione delle spese tra condomini stabilisce la regola generale secondo la quale "le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell'edificio, per la prestazione dei servizi nell'interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza, sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno salvo diversa convenzione".

 

Il comma secondo del suddetto articolo prevede un?importante deroga al principio della ripartizione delle spese in relazione al valore della proprietà. Esso infatti sancisce che: "se si tratta di cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell'uso che ciascuno può farne."

 

Dall'enunciato comma si desume che, nel caso in cui il tetto copra l'intero edificio, le spese di manutenzione devono essere sostenute da tutti i condomini in base ai millesimi di proprietà. Se però le spese riguardano un tetto che, per la conformazione dello stabile, copre solo una parte dell'edificio o parti di edificio in misura differente, le stesse devono essere ripartite solo tra i condomini proprietari delle unità immobiliari coperte dal tetto.

 

Lo stesso dicasi nell'ipotesi in cui il tetto copra in misura differente diverse abitazioni. In questo caso le spese andranno ripartite in proporzione alla superficie coperta dal tetto oggetto di rifacimento.

 

Il sistema di ripartizione delle spese come previsto dal secondo comma dell'articolo 1123 c.c., sarebbe derogabile esclusivamente attraverso una convenzione sottoscritta da tutti i condomini o da una deliberazione presa dagli stessi in sede assembleare con l'unanimità dei consensi dei partecipanti al condominio (in tal senso Cass. Civ. n. 6231 del 04.06.1993).

 

Per ciò che concerne i soggetti obbligati a sostenere seppure in misura diversa le spese per il rifacimento del tetto, è evidente che i condomini che non traggono dal rifacimento alcuna utilità, non debbano sostenere alcuna spese. Ciò in ossequio al 3° comma dell'articolo 1123 il quale espressamente sancisce che: "qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell'intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità".  

 

Notevoli differenze e divergenze, sono previste dalla normativa vigente, in relazione alle spese di riparazione del lastrico solare, rispetto alle regole dettate in materia di rifacimento del tetto e ciò per le peculiarità del lastrico solare specie in ordine al suo utilizzo pratico.

 

Accade spesso che l'uso del lastrico, specie se utilizzato come terrazza, sia concesso in uso esclusivo al proprietario dell'appartamento posto all'ultimo piano dell'edificio. In tal caso la legge prescrive che, chi ha l'uso esclusivo del lastrico è tenuto a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni dello stesso; gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell'edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno.

 

Notevole rilevanza pratica, assume il dibattito circa la liceità dell'installazione e dell'appoggio di antenne televisive sui beni comuni del condominio ed in particolare sui tetti, sui lastrici solari e sulle terrazze. Tale diritto è espressamente riconosciuto al singolo condomino dall'art. 232, comma secondo, D.P.R. 29 marzo 1973 n. 156 il quale consente di appoggiare antenne televisive sui muri e sulle coperture dei fabbricati. Esso si configura come un diritto soggettivo perfetto ed assoluto di natura personale, avente la sua fonte nella primaria libertà, costituzionalmente garantita, all'informazione. A tal proposito la Giurisprudenza di legittimità ha chiarito che né l?assemblea dei condomini né il regolamento di condominio possono vietare l?installazione di singole antenne sul tetto comune da parte dei condomini, in quanto ove tale divieto fosse consentito sarebbe menomato il diritto del singolo condomino all'uso della copertura comune, incidendo così sul diritto di proprietà dello stesso.

 

L?elaborazione giurisprudenziale ha introdotto negli ultimi tempi, un preciso orientamento in materia, ammettendo e riconoscendo il diritto in capo al singolo condomino di installare sulle parti comuni, antenne e apparecchi ricetrasmittenti, comprimendo in tal modo parzialmente il diritto di proprietà altrui; d?altro canto tale diritto deve necessariamente essere contemperato con il diritto di proprietà, dei condomini sulle parti comuni e con il diritto dei singoli proprietari degli appartamenti. E? stata ad esempio disposta dal tribunale di Terni con sentenza del 19.01.1998 la rimozione di un antenna televisiva, in quanto il proprietario della stessa doveva attraversare vari ambienti di proprietà altrui per avere accesso al locale ove l?antenna era posta, cosicché la riservatezza e la privacy del proprietario della terrazza ne risultavano ingiustamente compromesse, con notevole disagio al libero godimento del bene, specie in estate, a causa del continuo ruotare dell'antenna e del notevole ingombro della stessa e, infine dei disturbi ed interferenza ai televisori, telefoni e all'impianto stereofonico.

 

Ma non è il solo diritto di proprietà a restringere la facoltà per il singolo condomino all'installazione di antenne. Specifiche norme dettate dal legislatore i materia condominiale a volte rappresentano un ulteriore limite che non può non essere preso in considerazione da chi pretende di esercitare il diritto all'installazione di antenne.

 

Il Tribunale di Milano ha, ad esempio stabilito che l?installazione di un antenna parabolica di notevoli dimensioni sulla facciata di un condominio, essendo lesiva del decoro dell'edificio, è contraria ai canoni di utilizzo della cosa comune fissati dagli articoli 1102 e 1120 del codice civile.

 

E? assolutamente lecito che, una volta elaborato un principio Giurisprudenziale, in applicazione ed interpretazione analogica della normativa vigente, vengano poi stabilite delle deroghe, soprattutto quando il diritto in questione necessita di essere armonizzato e conciliato con altri diritti, specie se sanciti e protetti da norme costituzionali.

 

Per completezza di esposizione, è infine opportuno accennare alla disciplina dettata dal codice civile in materia di spese di manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai. Dette spese debbono essere sostenute in parti eguali dai proprietari di due piani l'uno all'altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l'intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto.

 

Avv. Matteo Santini

Riferimenti Giurisprudenziali

1)     Cass. Civ. Sez. II, 19.06.2000 n. 8292

2)     Cass. Civ., Sez II, 22.06.1995, n. 7077

3)     Cass. Civ., Sez II, 13.07.1996, n. 6359

4)     Cass. Civ., Sez II, 23.12.1992, n. 13655

5)     Cass. Civ., Sez II, 19.11.1992, n. 12375

6)     Cass. Civ., Sez II, 04.06.1993, n. 6231

7)     Cass. Civ., Sez II, 08.09.1986, n. 5458

8)     Cass. Civ., Sez II, 26.01.2000, n. 855

9)     Cass. Civ., Sez II, 25.03.2004, n. 5975

 

Riferimenti Normativi

1) Articolo 1117 codice civile (R.D. 16.03.1942, n. 262)

2) Articolo 1121 codice civile (R.D. 16.03.1942, n. 262)

3) Articolo 1123 codice civile (R.D. 16.03.1942, n. 262)

4) Articolo 1125 codice civile (R.D. 16.03.1942, n. 262)

5) Articolo 1135 codice civile (R.D. 16.03.1942, n. 262)

 La trascrizione del contratto preliminare: il privilegio speciale a favore del promissario acquirente

La legge n. 30/1997, ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità per il promissario acquirente, di trascrivere i contratti preliminari di compravendita di immobili prevedendo altresì la costituzione di un privilegio speciale a suo favore.
Tale privilegio, sussiste anche nell'ipotesi di edifici in corso di costruzione o addirittura non ancora venuti ad esistenza.
L'articolo 2645 bis cod. civ. così come modificato dal D.L. 669/1996, sancisce che, a seguito della trascrizione del preliminare, la successiva trascrizione del definitivo (o della sentenza di accoglimento della domanda ex art. 2932. c.c.) prevale sulle trascrizioni ed iscrizioni eseguite contro il promittente alienante dopo la trascrizione del contratto preliminare.
Il promissario acquirente è pertanto ampiamente tutelato da eventuali iscrizioni pregiudizievoli verificatesi nel periodo intercorrente tra la stipula del contratto preliminare ed il contratto definitivo di compravendita, grazie all'efficacia prenotativa del preliminare e alla retroattività dell'atto definitivo di vendita al momento dell'atto iniziale, che sottrae efficacia ad iscrizioni o trascrizioni ottenute medio tempore da terzi.
Nell'ipotesi in cui, non si dovesse addivenire alla stipula del contratto definitivo di compravendita, l'art. 2775-bis sancisce che, i crediti del promissario acquirente, hanno privilegio speciale sul bene immobile oggetto del contratto preliminare. Il suddetto articolo introdotto dalla legge ed intitolato (credito per mancata esecuzione dei contratti preliminari), così recita: “Nel caso di mancata esecuzione del contratto preliminare trascritto, i crediti del promissario acquirente che ne conseguono hanno privilegio speciale sul bene immobile oggetto del contratto preliminare sempre che gli effetti della trascrizione  non siano cessati al momento della risoluzione del contratto risultante da atto avente data certa, ovvero al momento della domanda giudiziale di risoluzione del contratto o di condanna al pagamento, ovvero al momento della trascrizione  del pignoramento o al momento dell'intervento nella esecuzione promossa da terzi.” (Vedasi anche sentenza Cass. civ., sez. I, 14-11-2003, n. 17197).

Ad ulteriore tutela della posizione del promissario acquirente, l'articolo 3.5. del D.L. 669/1996 ha aggiunto all'articolo 2780 c.c. il n. 5) bis: “I crediti del promissario acquirente per mancata esecuzione dei contratti preliminari, indicati all'articolo 2775 – bis.”

E' palese, a giudizio di chi scrive che, per “mancata esecuzione” debba intendersi la mancata conclusione dell'atto di vendita per qualunque causa; e ciò a titolo esemplificativo per mancanza ab origine dell'efficacia del contratto o per sentenza dichiarativa di nullità del contratto o per risoluzione consensuale o giudiziale del preliminare. Nella sfera del credito garantito da ipoteca e da restituirsi, a parere di chi scrive vanno annoverate le somme versate dal promissario acquirente a titolo di caparra o anticipo sul prezzo già corrisposto al promettente alienante ma, anche le eventuali somme dovute in base al contratto preliminare a titolo di penale o le somme dovute a titolo di risarcimento del danno liquidato in sentenza dichiarativa o di accertamento di risoluzione contrattuale.

L'intenzione del legislatore di dare una maggior tutela a chi acquista, considerato comunque come contraente più debole e soprattutto più “esposto” rispetto a che vende, si palesa anche in materia fallimentare ove all'articolo 72 della legge fallimentare (come modificato dall'art. 3, comma 6, D.L. 31 dicembre 1996, n. 669, convertito, dalla L. 28 febbraio 1997, n.30) è previsto che, in caso di un preliminare regolarmente trascritto, il promissario acquirente avrà diritto di insinuare il proprio credito di restituzione del prezzo già versato nel passivo del fallimento, godendo del privilegio di cui al citato art. 2775-bis, qualora il curatore decida di recedere dal preliminare.

Occorre a questo punto interrogarsi su di un aspetto estremamente significativo nella pratica: cosa accade nell'ipotesi in cui sull'immobile dovessero risultare ipoteche iscritte anteriormente alla trascrizione del contratto preliminare di vendita?
Il Ministero della Giustizia è stato investito del quesito e con nota 15.04.1997 prot. 291421/35-2 ha così risposto: “.. il privilegio speciale di cui gode il credito del promissario acquirente di bene immobile oggetto di contratto preliminare trascritto ex art. 2645 –bis. c.c., prevale sulle ipoteche trascritte anteriormente”.
E' enorme la portata di una simile norma, in quanto essa consente ad una trascrizione successiva di prevalere su un'iscrizione precedente, pregiudicando notevolmente il creditore ipotecario precedente.

Al privilegio speciale di cui gode il promissario acquirente, esiste però una rilevante eccezione. Il privilegio del promissario acquirente non è infatti opponibile ai creditori garantiti da ipoteca relativamente a mutui erogati al promissario acquirente per l'acquisto del bene immobile nonché ai creditori garantiti da ipoteca ai sensi dell'articolo 2825 – bis (art. 2775-bis secondo comma).
Ciò significa che in caso di mutuo concesso da Istituto di credito o da altro soggetto, con garanzia ipotecaria sull'immobile, l'ipoteca stessa, anche se successiva alla trascrizione del preliminare, prevarrà sulla medesima, ma solo in riferimento alla parte di mutuo che il promissario acquirente ha dichiarato in sede di preliminare, di volersi accollare.

Avv. Matteo Santini -

RIFERIMENTI NORMATIVI
Codice civile art. 2645-bis
Codice civile art. 2748
Codice civile art. 2775-bis
Codice civile art. 2852
D.L. 31-12-1996, n. 669, art. 3
Legge 28-02-1997, n. 30

  Ingiustificato arricchimento della Pubblica Amministrazione                                                                             Pubblicato sul sito www.ergaomnes.net

Ogni contratto stipulato tra la Pubblica Amministrazione ed il privato deve necessariamente rivestire la forma scritta “ad substantiam”. In mancanza di tale requisito formale, il contratto non è validamente concluso e, nessun rapporto di natura negoziale potrà dirsi instaurato tra la P.A. ed il privato.
Trattasi invero di una nullità di tipo assoluto e di conseguenza “insanabile”: “Tutti i contratti stipulati dalla pubblica amministrazione richiedono la forma scritta "ad substantiam", non rilevando a tal fine la deliberazione dell'organo collegiale dell'ente pubblico che abbia autorizzato il conferimento dell'incarico, dell'appalto o della fornitura ove tale deliberazione (costituente mero atto interno e preparatorio del negozio) non risulti essersi tradotta in un atto, sottoscritto da entrambi i contraenti, da cui possa desumersi la concreta sistemazione del rapporto con le indispensabili determinazioni in ordine alle prestazioni da eseguirsi e al compenso da corrispondersi; il contratto privo della forma richiesta "ad substantiam" è nullo e pertanto insuscettibile di qualsivoglia forma di sanatoria, dovendosi quindi escludere l'attribuzione di rilevanza ad eventuali convalide o ratifiche successive” (Cass civ, S.U.,  7 marzo 2001 n. 95)
Viene pertanto categoricamente preclusa la possibilità che, rapporti contrattuali tra privato e P.A. possano nascere per comportamento concludente ai sensi dell'articolo 1327 c.c..
Cosa accade nell'ipotesi in cui un soggetto privato compia comunque una prestazione a favore della P.A. anche in assenza di contratto?
Quali azioni sono esperibili a tutela del privato?

Innanzitutto diciamo che il primo presupposto per cui al privato possa essere attribuito qualche diritto azionabile giudizialmente, è che la P.A. abbia riconosciuto l'utilità della prestazione svolta o che ne abbia tratto una qualche utilità.
Questo può avvenire o perché la P.A. oggettivamente si è avvalsa dei risultati della prestazione del privato traendone tutti i benefici o perché essa, attraverso apposita procedura ha riconosciuto il debito (Procedura di Riconoscimento del Debito).
Preclusa la possibilità di agire con l'azione di responsabilità contrattuale, nelle ipotesi sopra descritte l'unica azione esperibile dal privato è quella di ingiustificato arricchimento.
Per consolidato orientamento giurisprudenziale, l'elemento costitutivo della pretesa indennitaria azionata ex art. 2041 c.c., è il configurarsi dell'indebito arricchimento da parte della P.A. che abbia riconosciuto l'utilità del servizio realizzato o espressamente riconosciuto l'esistenza di un debito.
Il vincolo tra Pubblica Amministrazione e privato, pur non potendosi qualificare come contrattuale, per carenza di forma scritta richiesta “ad substantiam”, è fonte di responsabilità e di obbligazione ex art. 2041 c.c.

Come rimedio finalizzato alla reintegrazione del patrimonio del creditore, l'indennizzo ex art. 2041 c.c. configura un debito di valore e non di valuta, da liquidarsi, tenendo conto, anche, della svalutazione monetaria intervenuta tempore solutionis (Cass., 6 febbraio 1998 n. 1287). A compensare l'ulteriore pregiudizio costituito dal ritardato conseguimento dell'equivalente pecuniario, sulla somma vanno corrisposti, dal giorno del verificarsi dell'altrui arricchimento, gli interessi ad un saggio anche diverso da quello legale, nella misura non assorbita dal tasso di adeguamento monetario del capitale (Cass., 10 maggio 2001 n. 6502; Cass., 12 gennaio 1999 n. 256).
In relazione all'ipotesi di prestazioni effettuate da un imprenditore a vantaggio di ente pubblico in difetto di valido contratto, l'impoverimento subito è costituito non solo dal costo di acquisto delle merci, dei servizi e dal costo del personale, ma anche da ogni genere di spesa affrontata per eseguire le prestazioni (quota parte dei costi generali, imposte, etc.: tutti esborsi sicuramente effettivi, destinati ad essere recuperati attraverso il prezzo di vendita dei servizi) nonché del mancato guadagno per utile di impresa connesso alle prestazioni erogate (così, Cass., 11 settembre 1999 n.9690; Cass., 25 settembre 1998 n.9584).
Tutte queste voci, pertanto, debbono essere indennizzate ove l'imprenditore agisca nei confronti della P. A. con l'azione di ingiustificato arricchimento (Cass. civile, sez. III, 25-09-1998, n. 9584).

Come affermato più volte dalla Corte di Cassazione, la pretesa indennitaria è in ragione dei prezzi di mercato usualmente praticati che, sarebbero stati i costi sopportati dalla P.A. per assicurarsi beni e servizi dello stesso contenuto qualitativo e quantitativo.
Pur prevedendo l'art. 2041 cod. civ. che l'indennità per indebito arricchimento sia liquidata nella minor somma tra l'arricchimento ricevuto da chi si sia avvantaggiato della prestazione senza causa, e la diminuzione patrimoniale subita da chi ne sia stato impoverito, deve rilevarsi che, nel caso di forniture di prestazioni effettuate da un imprenditore in favore di un ente pubblico in assenza di un valido contratto, la diminuzione patrimoniale subita dall'imprenditore non è costituita dal solo costo d'acquisto dei beni o servizi forniti. L'impoverimento dell'imprenditore, infatti, è costituito, innanzitutto, da ogni genere di spesa affrontata per effettuare le forniture, senza che possa distinguersi tra costo di acquisto, quota parte delle spese generali destinate ad essere ammortizzate con la loro vendita, imposte corrisposte in relazione alle forniture effettuate, e costi di consegna. Trattasi, infatti, di esborsi sicuramente effettivi, destinati ad essere recuperati attraverso il prezzo della vendita, prezzo che essi concorrono a determinare.
E deve ritenersi che anche il mancato guadagno per utile d'impresa connesso a prestazioni erogate - "sine causa", costituisca perdita patrimoniale che deve entrare in conto della "diminuzione patrimoniale" subita dall'imprenditore, liquidata eventualmente ex art. 1226 cod. civ. (Cass. civile, sez. III, 25-09-1998, n. 9584 - Cass. civile, sez. I, 12-04-1995, n. 4192).
Ne consegue che, cosi come affermato dalla Corte di Cassazione in sentenza 05-06-1997, n. 5021 ove l'imprenditore abbia emesso fatture, la diminuzione patrimoniale da lui subita possa presumersi coincidente con il prezzo fatturato, ma non riscosso, e che, essendo - per converso - il vantaggio patrimoniale conseguito, in questi casi, dall'ente pubblico "accipiens", rappresentato dal valore di mercato delle merci ricevute (e cioè, dal prezzo normalmente praticato nella stessa zona per merci e contrattazioni dello stesso tipo coincidenti per quantità, qualità e contenuto accessorio ), ove il prezzo fatturato dall'imprenditore sia quello di mercato, l'importo della diminuzione patrimoniale risentita da quest'ultimo e quello dell'arricchimento conosciuto dall'ente "accipiens" coincidano, e rappresentino l'importo dovuto a titolo di indebito arricchimento.

Autore: Avv. Matteo Santini - tratto dal sito www.ergaomnes.net

Cessione del contratto di locazione e affitto d'azienda  

Pubblicato su:

Studium Fori – Roma 2004

Erga Omnes – Diritto alla Fonte – Roma 2004

Portale di professionisti: www.101professionisti.com   

Nella cessione del contratto si attua un successione a titolo particolare nel rapporto, con l'introduzione di un nuovo soggetto detto il “cessionario” il quale diviene legittimato attivo e passivo sia sul piano sostanziale che su quello processuale.

 

In tema di cessione del contratto di locazione ad uso commerciale, l'art. 36 della Legge 392/78 attribuisce al conduttore la facoltà di cedere a terzi il contratto di locazione, anche senza il consenso del locatore, purché venga insieme ceduta o locata l'azienda.

 

Tale disposizione costituisce evidente deroga alla statuizione di cui all'articolo 1594 c.c. che vieta al conduttore di cedere il contratto di locazione, in mancanza del consenso del locatore.

 

La ratio della deroga contenuta all'articolo 36 e valevole solo per gli immobili adibiti ad uso diverso da abitazione, è ravvisabile, nella volontà del legislatore di agevolare il trasferimento della titolarità aziendale e assicurare la continuazione delle attività commerciali.

 

Ciò è stato ravvisato anche dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità, la quale si è spinta sino ad affermare che il conduttore possa procedere alla cessione del contratto anche nell'ipotesi in cui nel contratto di locazione vi sia un'apposita clausola, contenente l'espresso divieto di cessione del contratto (Cass. Civ. n. 4802/2000).

 

Nel caso di azienda costituita da una pluralità di immobili e di relativa cessione della stessa, a parere dello scrivente, è plausibile ipotizzare l'esclusione di alcune unità immobiliari dall'affitto o dalla cessione, mentre ove l'azienda venga esercitata in un unico immobile, sarebbe più arduo legittimare un'esclusione dell'immobile dall'affitto o dalla cessione, senza snaturare il contratto di affitto o cessione di azienda dei suoi connotati essenziali. Si tratterebbe invero di privare l'azienda di un suo elemento costitutivo.

 

In tal senso, la Corte di Cassazione in sentenza n. 8065/1993 ha affermato che, in caso di affitto o cessione di azienda che venga esercitata in immobile condotto in locazione, il trasferimento del diritto di godimento dell'immobile aziendale, costituisce un effetto naturale del trasferimento dell'azienda e non un effetto negoziale alla cui produzione occorra anche un distinto negozio di cessione del rapporto locativo (principio dell'automatismo della cessione).

 

In senso opposto la Cass. Civ., sez. III, ha recentemente sancito che: “non si produce l'automatica successione del cessionario nel contratto di locazione dell'immobile, quale effetto necessario del trasferimento dell'azienda, ma la successione è soltanto eventuale e richiede comunque la conclusione, tra cedente e cessionario dell'azienda, di un apposito negozio volto a porre in essere la sublocazione o la cessione del contratto di locazione” (03-04-2003, n. 5137 e vedasi anche Cass. civ., sez. II, 02-02-2000, n. 1133)

 

Tale orientamento discenderebbe da una interpretazione di tipo letterale della legge 392/78 la quale recita all'art. 36 che il conduttore, ha la facoltà ("può") di cedere il contratto e può quindi anche non avvalersene. Alla stregua di tale interpretazione, la successione nel contratto di locazione non discenderebbe automaticamente dal negozio di cessione o di affitto dell'azienda quale suo effetto necessario, ma sarebbe soltanto eventuale, richiedendo comunque l'adozione, da parte del cedente e del cessionario dell'azienda, di un apposito negozio volto a porre in essere la sublocazione o la cessione del contratto di locazione.

 

A parere di chi scrive l'interpretazione della Suprema Corte è eccessivamente restrittiva e soprattutto rischia di introdurre un orientamento giurisprudenziale che è da ritenersi corretto in presenza di determinati requisiti e condizioni ma che può divenire contrario alla spirito informatore di altre normative vigenti, in presenza di altre condizioni.

 

Ove l'azienda sia costituita da una pluralità di immobili, è certamente necessario, al fine di evitare equivoci, più o meno voluti, che nel contratto di affitto o cessione di azienda, si faccia espresso riferimento ai singoli immobili che le parti vogliono effettivamente cedere in godimento o che vengano contestualmente (o successivamente) stipulati differenti contratti di cessione locazione per i singoli immobili.

 

Ma, come in precedenza affermato, nel caso di affitto o cessione di azienda che venga esercitata nell'unico immobile condotto in locazione dal titolare dell'azienda, il trasferimento del diritto di godimento dell'immobile aziendale, dovrebbe costituire un effetto naturale del trasferimento dell'azienda e non un effetto negoziale alla cui produzione occorra anche un distinto negozio di cessione del rapporto locativo e ciò perché in caso contrario si darebbe al conduttore cedente, la facoltà di escludere dalla cessione un elemento fondamentale e costitutivo del complesso aziendale, snaturando la struttura e la funzione stessa del contratto di cessione o affitto di azienda.

 

In materia di collegamento temporale tra il contratto di cessione e affitto di azienda e la cessione del contratto di locazione, la Suprema Corte ha chiarito, con principio da ritenersi ormai consolidato, che non è affatto necessario che il contratto di affitto / cessione di azienda e la cessione del contratto di locazione siano stipulati contemporaneamente, “essendo sufficiente che tra i due atti vi sia uno stretto collegamento funzionale e temporale”  (Cass. Civ. 7091/1997 e Cass. Civ. 9509/1995).

 

Nonostante il dettato normativo non richieda il consenso del locatore ceduto, è in ogni caso sancito il dovere per il conduttore di comunicare l'avvenuta cessione del contratto di locazione (art. 36 L. 392/78). Detto incombente non costituisce un requisito di validità della cessione del contratto di locazione, ma ha come unica conseguenza, l'impossibilità per il conduttore di opporre al locatore ceduto, la cessione del contratto di locazione.

 

Altra importante conseguenza dell'avvenuta comunicazione ex art. 36 è il passaggio della legittimazione passiva in capo al cessionario.

 

Legittimato ad eseguire la comunicazione anzidetta è esclusivamente il conduttore cedente con conseguente inefficacia della comunicazione effettuata da terzi soggetti (La Suprema Corte con sentenza 2675/1998 si è spinta sino a dichiarare inefficace una comunicazione ex art. 36 effettuata dal difensore del conduttore, nel corso di un giudizio pendente tra le parti originarie del rapporto).

 

Per quanto concerne la comunicazione, essa viene dalla Giurisprudenza prevalente considerata una dichiarazione a forma libera, in quanto nonostante l'indicazione della lettera raccomandata A.R. per l'effettuazione della stessa, la norma non prevede tale forma a pena di nullità e pertanto in ossequio al vigente principio sulla libertà nella forma, ove una determinata forma non venga espressamente prevista a pena di nullità, la sua mancanza non potrebbe avere come conseguenza l'invalidità del negozio.

 

Ove manchi la comunicazione, l'eventuale conoscenza della cessione acquisita altrove, non rende opponibile il negozio di cessione al locatore (Cass. Civ. 2675/1998). In tal caso, l'opponibilità della cessione, potrebbe discendere, a giudizio di chi scrive, solo nell'ipotesi di accettazione effettuata per facta concludentia dal contraente ceduto, in quanto si rientrerebbe nella regola generale sulla cessione del contratto prevista dall'articolo 1407 c.c.. Si tratterebbe in altre parole di equiparare, ai fini sostanziali e processuali, la comunicazione all'avvenuta accettazione della cessione per facta concludentia da parte del contraente ceduto, il quale venuto aliunde a conoscenza della cessione, abbia accettato la situazione di fatto, attraverso un comportamento univoco, protrattosi nel tempo.

 

Il termine per il locatore ceduto, per opporsi all'avvenuta cessione è di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione completa di tutti i suoi elementi (specie quelli relativi alla persona del cessionario e all'ubicazione dell'immobile).

 

L'opposizione, per la quale non è prevista alcuna forma particolare, è ammissibile unicamente per gravi motivi, intendendosi come tali esclusivamente quelli riguardanti ragioni di ordine economico o morale relative alla persona del cessionario.

 

L'avvenuta opposizione non invalida né sospende, a giudizio di chi scrive, l'efficacia della cessione della locazione, la quale continua a produrre i suoi effetti, sino all'eventuale pronuncia giudiziale che accolga l'opposizione del contraente ceduto. Questo principio ha come importante conseguenza, quella che il legittimato passivo per tutte le azioni riguardanti l'esistenza o la durata della locazione, deve considerarsi il cessionario e non il cedente e ciò, nonostante l'avvenuta formale opposizione del locatore alla cessione. In tal senso si è espressa la Corte di Cassazione in sentenza 5305/1996, mentre in senso opposto la Suprema Corte ha affermato che l'opposizione del locatore alla cessione produce l'effetto immediato di sospendere nei suoi confronti l'efficacia della cessione” (Cass. Civ. 201/2002).

 

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Studium Fori – Roma 2004

Erga Omnes – Diritto alla Fonte – Roma 2004

Portale di professionisti: www.101professionisti.com

 

Avv. Matteo Santini

Consorzi volontari di urbanizzazione                            

Pubblicato su diritto e giustizia ( Ed. Giuffrè n. 25 del 25/06/2005)

Attraverso il consorzio di urbanizzazione, i proprietari di terreni situati in aree destinate ad insediamenti industriali, abitativi o turistici, si associano, al fine di realizzare su tali aree i servizi e le opere imposte dalla normativa urbanistica.

Contrariamente a quanto si possa pensare, la disciplina applicabile ai consorzi di urbanizzazione non è quella prevista dal codice civile in materia di consorzi per il coordinamento della produzione e degli scambi (artt. 2602 ss.), ma piuttosto quella dettata in materia di comunione e di associazioni non riconosciute.

La questione sulla natura giuridica del consorzi di urbanizzazione ha dato origine ad un dibattito giurisprudenziale e dottrinale non ancora del tutto risolto.

In effetti, il consorzio di urbanizzazione non ha nel nostro ordinamento una specifica disciplina e pertanto i principi di diritto ad esso applicabili devono essere desunti, facendo riferimento ad istituti analoghi ed aventi elementi comuni, disciplinati in modo espresso dal diritto positivo.

Esso per una parte della dottrina, sarebbe caratterizzato da elementi propri della comunione di diritti reali. I consorziati attraverso il contratto di consorzio, darebbero vita ad una situazione giuridica di comunione, simile a quella che si realizza in materia di condominio e finalizzata alla gestione, godimento e manutenzione dei beni comuni. 

Sostengono molti dei sostenitori della suddetta tesi che, la disciplina sulla comunione e sul condominio sarebbe applicabile ai consorzi in questione, nel presupposto che qualunque accordo tra privati diretto a mettere in comune più beni per la loro gestione e/o godimento sarebbe qualificabile come comunione. 

In realtà considerare il consorzio di urbanizzazione come una sorta di “condominio”, sarebbe quanto meno riduttivo, specie in considerazione del peculiare scopo che i consorziati si prefiggono attraverso la costituzione del consorzio stesso. 

Si tratta di individuare una figura giuridica che pur presentando alcuni dei caratteri propri della comunione presenti elementi ulteriori, primo tra tutti lo scopo, costituito non solo dal godimento della cosa comune ma anche e soprattutto, dalla costituzione e dalla gestione delle opere di urbanizzazione. 

In considerazione dello scopo comune avente carattere non lucrativo e non imprenditoriale, si individuano nell'istituto del consorzio di urbanizzazione molti degli elementi propri delle associazioni non riconosciute, disciplinate dagli articoli 36 ss. del codice civile. 

Nel corso di questi anni si sono succeduti diversi orientamenti, diretti ad inquadrare i consorzi di urbanizzazione nell'una o nell'altra categoria o addirittura in un terzo genere: in base a tale orientamento interpretativo il contratto di consorzio sarebbe un contratto atipico con causa mista nel quale confluiscono elementi propri della comunione ed altri propri delle associazioni non riconosciute. 

I tentativi di inquadrare necessariamente la figura del consorzio di urbanizzazione, in uno specifico istituto normativo ed il conseguente svilupparsi del relativo dibattito dottrinale e giurisprudenziale, sono sfociati nella prassi giudiziaria, nell'identificazione di una figura giuridica che presenta i connotati sia della comunione sia dell'associazione non riconosciuta. I consorziati pertanto, attraverso il contratto di consorzio, darebbero vita ad un rapporto atipico, con aspetti sia associativi che di realità, propri della comunione. 

Come associazione stabile tra privati, che si prefiggono un fine specifico non lucrativo per un periodo di tempo determinato, il consorzio di urbanizzazione assume i connotati essenziali dell'associazione non riconosciuta. “Alle regole dettate dal codice civile (artt. 36 ss.) occorre perciò fare capo, specie per quanto attiene ai profili organizzativi ed associativi, al fine di individuare la disciplina concretamente applicabile nelle varie ipotesi” (Cass. Civ. 11218/1992). 

L'interesse comune a regolamentare l'utilizzo dell'area nella prospettiva dell'urbanizzazione è il fine principale che spinge i privati a stipulare il contratto di consorzio, in adempimento del quale i contraenti si impegnano a realizzare i servizi e le opere imposte dalle prescrizioni urbanistiche. Esistono però caratteristiche peculiari che ci impongono di non considerare sic et simpliciter il consorzio di urbanizzazione come una semplice associazione non riconosciuta, ma di approfondire il dibattito sulla natura giuridica e soprattutto sulla disciplina da applicarsi nella pratica. 

Gli elementi propri della comunione sarebbero desumibili dalla natura propter rem delle obbligazioni e dei vincoli consortili. Si tratta di diritti ed obbligazioni che incombono sul consorziato in quanto proprietario del terreno e a cui il consorziato non potrebbe rinunziare e meno di un'alienazione a favore di terzi della propria quota consortile. Vi sarebbero pertanto elementi di realità – comunione, disciplinati dalle norme proprie della comunione e delle obbligazioni propter rem. La qualità di consorziato e di proprietario sarebbero pertanto inscindibili e non si potrebbe rinunziare ad una senza rinunziare all'altra. 

Nella prassi giudiziaria si è tentato di porre l'accento non solo sulla qualificazione giuridica dell'istituto in astratto, ma soprattutto sugli aspetti pratico – organizzativi ed applicativi, relativi all'attività del consorzio.  

Per la costituzione del consorzio, stante la causa associativa dello stesso, troveranno applicazione le norme previste in materia di associazioni non riconosciute (e per analogia anche quelle sulle associazioni riconosciute), mentre per la costituzione, gestione e manutenzione dei beni comuni sarà necessario tenere in considerazione le norme dettate in materia di condominio e comunione. Nasce così una corrente di pensiero diretta a qualificare il contratto di consorzio come un contratto atipico, con elementi tipici sia della comunione sia delle associazioni non riconosciute e con applicazione a seconda dei casi specifici della disciplina dettata per l'uno o per l'altro istituto. E ciò avverrà sulla base nei noti principi della prevalenza o della combinazione. 

L'elaborazione giurisprudenziale ha propeso talvolta per la causa associativa, talvolta per la causa costitutiva di una comunione volontaria. 

 Per l'impugnazione delle delibere assembleari, ad esempio, non dovrà essere rispettato il termine di decadenza di 30 giorni previsto in materia condominale per l'impugnativa delle delibere, ma esse potranno essere in ogni caso censurabili dinnanzi all'autorità giudiziaria senza termini di decadenza (Tribunale di Milano 18.09.2000),m così come previsto in materia di associazioni. 

Per le spese relative alla lottizzazione la Suprema Corte in sentenza 1125/1994 ha stabilito che in ottemperanza all'articolo 1101, secondo comma, del codice civile (in materia di comunione), esse si ripartiscono in proporzione alle quote dei partecipanti. 

Per ciò che concerne le maggioranze necessarie per l'approvazione delle delibere assembleari (quorum costitutivo e deliberativo), si dovrà fare riferimento alla disciplina dettata dall'articolo 1136 del codice civile (in materia condominiale) e non a quella prevista dall'articolo 21 codice civile in materia di associazioni non riconosciute (Cass. Civ. 3665/2001). 

In materia di diritto di recesso del singolo consorziato, stante la natura propter rem, egli non potrà recedere dal contratto di consorzio, senza alienare la propria quota a favore di un terzo (Cass. Civ. 11218/1992). 

Con riferimento alla disciplina giuridica da applicarsi ai consorzi di urbanizzazione merita particolare attenzione la sentenza della Corte di Cassazione, sez. civile, n. 3665 del 14.03.2001, la quale ha stabilito che pur appartenendo il consorzio alla categoria delle associazioni non riconosciute, non esistendo schemi obbligati per la costituzione di tali enti assume rilievo decisivo ai fini della disciplina applicabile, la volontà dei consorziati contenuta nelle norme statutarie. 

La sentenza ha pertanto tentato di inquadrare in astratto la figura del consorzio di urbanizzazione, lasciando però alla libera determinazione delle parti contraenti la scelta circa la disciplina applicabile nella pratica. 

A parere dello scrivente per determinare l'esatta natura giuridica di un istituto non si può certamente prescindere dalla struttura, dall'organizzazione e dagli aspetti connessi alle applicazioni nella pratica, ma si deve comunque dare rilievo preminente ai fini qualificatori, allo scopo essenziale e alla causa principale del contratto, che resta comunque quella associativa, diretta alla costituzione e gestione delle opere di urbanizzazione.

Avv. Matteo Santini

Il diritto allo sfruttamento dell'immagine altrui                       Pubblicato su Diritto & Giustizia (Ed. Giuffré 2005)

Il diritto all'immagine è regolamentato prevalentemente all'articolo 10 del codice civile nonché dagli articoli 96 e 97 legge 633 del 1941 (c.d. legge sul diritto d'autore).L'articolo 10 del codice civile disciplina l'abuso dell'immagine altrui, imponendo il risarcimento dei danni e la cessazione dell'abuso da parte di colui che espone o pubblica l'immagine, fuori dei casi in cui l'esposizione o la pubblicazione sono consentite dalla legge o con pregiudizio al decoro e alla reputazione della persona stessa o dei congiunti. 

Come appare ictu oculi, il suddetto articolo anziché disciplinare e definire il concetto di immagine o di diritto all'immagine, si occupa esclusivamente dell'abuso che terzi soggetti possano fare dell'immagine altrui, demandando alla normativa specifica i casi e le circostanze in cui è ammesso l'utilizzo a fini espositivi o di pubblicazione dell'immagine altrui. 

La legge sulla protezione del diritto di autore all'articolo 96 individua nel consenso dell'interessato, l'elemento che esime dalla responsabilità civile, il soggetto che espone, riproduce o mette in commercio l'immagine altrui. 

Il consenso alla pubblicazione della propria immagine costituisce un negozio avente ad oggetto non il diritto stesso all'immagine, il quale resta personalissimo ed inalienabile, ma soltanto il suo esercizio. 

Laddove si faccia riferimento al consenso dell'interessato, il primo aspetto da affrontare, concerne la forma che deve rivestire la manifestazione di volontà. La normativa vigente non impone alcuna forma vincolata per la manifestazione del consenso, potendo essa manifestarsi in forma espressa od implicita. Il problema derivante da una manifestazione di consenso implicita, è certamente quello dell'individuazione dei limiti del consenso stesso, sia con riferimento ai limiti soggettivi (soggetto a favore del quale il consenso viene prestato) che a quelli oggettivi (efficacia limitata ai fini per i quali il consenso è stato prestato, modalità di divulgazione, estensione temporale). 

L'importanza della definizione dei limiti del consenso all'uso dell'immagine deriva dal fatto che essi, pur non condizionandone la validità, circoscrivono l'efficacia del consenso alla pubblicazione, la quale deve essere contenuta nei limiti di tempo, di luogo, per lo scopo e secondo le forme previste dall'atto del consenso, se questo è espresso, o determinabili attraverso l'interpretazione del comportamento della persona ritratta, se esso è tacito. 

L'abusiva e non autorizzata pubblicazione dell'immagine altrui determina un danno risarcibile di natura patrimoniale, comportando il venir meno per l'interessato della possibilità di offrire l'uso del proprio ritratto per pubblicità di prodotti o servizi analoghi e d'altra parte, determina la difficoltà a commercializzare al meglio la propria immagine anche con riferimento a servizi o prodotti diversi. 

Ovviamente ai fini del risarcimento di tipo patrimoniale per diffusione abusiva dell'immagine altrui, riveste ruolo fondamentale la notorietà del soggetto. La persona deve, infatti, essere in grado di trarre vantaggi di tipo patrimoniale dall'utilizzo della propria immagine, comportando l'uso non autorizzato da parte di terzi, un danno qualificabile come lucro cessante (prezzo del consenso e prezzo dell'immagine). 

Questo non significa affatto che la diffusione non autorizzata a fini commerciali, dell'immagine di persona non nota, possa ritenersi lecita, ma esclusivamente che la quantificazione della somma risarcibile è determinata dal “prezzo” dell'immagine del soggetto e quindi proporzionale al suo grado di notorietà. 

In caso di diffusione non autorizzata dell'immagine di persona non nota, il soggetto danneggiato avrà in ogni caso diritto di adire l'autorità giudiziaria al fine di ottenere l'accertamento dell'illiceità del comportamento del terzo, domandare la cessazione della diffusione dell'immagine, il risarcimento del danno esistenziale (Tribunale di Forlì 09-10-2002) e del danno morale qualora l'illecito commesso integri anche gli estremi di un reato. 

In effetti, la Corte di Cassazione Sezione Civile, in sentenza n. 5790 del 10.11.1979 ha escluso espressamente la risarcibilità del danno morale in ipotesi di lesione del diritto all'immagine, qualora l'illecito commesso non integri gli estremi di un reato. 

Si individua pertanto, nei casi di abuso nell'utilizzo dell'immagine altrui, una responsabilità di natura civilistica, di tipo extracontrattuale ex articolo 2043 del codice civile, per mancanza del consenso della persona autorizzata. 

Una responsabilità di tipo contrattuale potrebbe invece ipotizzarsi in tutte quelle ipotesi in cui, pur essendo presente il consenso del soggetto interessato, il terzo nell'utilizzo dell'immagine altrui oltrepassi le modalità, i limiti di tempo, di luogo e lo scopo, previsti dall'atto del consenso. 

Vi sarà infine anche una responsabilità penale qualora l'utilizzo dell'immagine altrui, comporti per il soggetto interessato, una lesione della propria reputazione, penalmente rilevante. 

Il ragionamento circa la natura giuridica del danno risarcibile non è puramente teorico ed accademico, ma è estremamente rilevante per finalità pratiche, specie per ciò che concerne i termini di prescrizione dell'azione giudiziaria (5 anni per la responsabilità extracontrattuale e 10 anni per quella contrattuale) e per la quantificazione dei danni risarcibili. 

Un'analisi approfondita della materia del diritto all'immagine, non può prescindere dalla considerazione dell'articolo 97 della legge 633/1941 il quale così recita: “Non occorre il consenso della persona ritratta, quando la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.

Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l'esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata”. 

La disposizione sopra citata introduce importanti deroghe al principio nella necessità del consenso alla diffusione della propria immagine, sancendo l'irrilevanza del consenso in ipotesi tassative quali, la notorietà della persona ritratta, le necessità di giustizia o di polizia (foto e riprese avvenute nel corso di processi), gli scopi scientifici, didattici o culturali e le cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.  

La riproduzione dell'immagine del soggetto famoso è lecita esclusivamente, quando la sua diffusione intenda soddisfare l'interesse pubblico all'informazione o alla conoscenza della sua immagine e non certo quando sia finalizzata all'esclusivo o prevalente scopo della commercializzazione della stessa. 

Solo la presenza di prioritarie esigenze di pubblica informazione, rende lecita la divulgazione dell'immagine del V.I.P. anche in mancanza del suo consenso e tale esigenza non sussiste certamente nel caso di pubblicazione dell'immagine in periodici che non perseguono fini di informazione, bensì sono diretti a soddisfare a fini di lucro, la morbosa curiosità dei lettori (Pretura di Milano 19-12-1989). 

Il significato e la ratio della norma che consente la pubblicazione dell'immagine del V.I.P. a prescindere dal consenso, è stata nel corso degli anni ampiamente e astutamente travisata da coloro i quali, in una logica lucrativa senza limiti, hanno camuffato l'intento commerciale e pubblicitario dietro la parvenza di un ipotetico e velleitario diritto all'informazione in riferimento alla conoscenza dell'immagine del soggetto famoso. 

La giurisprudenza di legittimità e di merito è dovuta più volte intervenire nel corso degli anni, per fronteggiare questa crescente tendenza ad abusare dell'utilizzo dell'immagine altrui, attraverso subdoli ed astuti accorgimenti diretti ad eludere l'applicazione della normativa in vigore e soprattutto a mistificare la ratio dell'articolo 97 della legge sulla protezione del diritto di autore. 

Il criterio interpretativo che deve sovrintendere all'esame del comportamento del soggetto che utilizza l'immagine altrui, è quello della prevalenza dello scopo informativo rispetto a quello lucrativo. Solo in questo modo e smascherando ogni astuto accorgimento che viene utilizzato al fine di alterare il significato dell'articolo 97 della legge 633/1941 che si riuscirà in futuro ad evitare la sempre più crescente tendenza ad utilizzare a fini commerciali e pubblicitari, l'immagine del soggetto famoso, facendosi scudo con inesistenti esigenze di diritto all'informazione. 

L'intervento giurisprudenziale più efficace è stato certamente quello indirizzato ad individuare le forme più subdole dirette ad eludere la necessità del consenso della persona della quale si utilizza l'immagine. Così ad esempio, è stata ritenuta illegittima l'utilizzazione nell'ambito di una campagna pubblicitaria, di oggetti usati da un personaggio (Lucio Dalla) per caratterizzare la sua personalità (Pretura di Roma 18-04-1984). 

Anche l'utilizzo, nell'ambito di una campagna pubblicitaria, dell'immagine di un sosia di un personaggio famoso, è stato ritenuto illecito, in quanto l'attrice famosa, subirebbe una lesione del proprio diritto all'immagine in conseguenza della pubblicazione di fotografie di suoi sosia, qualora queste siano realizzate con modalità tali, da ingenerare in un lettore di media avvedutezza, l'erroneo convincimento che la persona effigiata sia l'attrice in questione e non il sosia. 

L'esposizione o la pubblicazione dell'immagine altrui è abusiva, non solo quando avvenga senza il consenso della persona o senza il concorso della altre circostanze previste come idonee ad escludere la tutela del diritto alla riservatezza, ma anche quando, pur ricorrendo quel consenso o quelle circostanze, sia tale da arrecare pregiudizio all'onore, alla reputazione o al decoro della persona medesima.  

In conclusione, si può affermare che sulla base del diritto vigente esiste un valore economico del proprio nome e della propria immagine ed il danno causato dallo sfruttamento non autorizzato del nome da parte di terzi, è pari al prezzo che il soggetto interessato avrebbe ottenuto se avesse “ venduto” ad altri il diritto ad utilizzare la propria immagine. Pertanto il discorso in esame rientra pienamente in una logica strettamente commerciale, nel presupposto che il prezzo della propria immagine è direttamente proporzionale al grado di notorietà. E come necessario corollario, questa logica ha determinato una politica di sfruttamento economico dell'immagine, non solo da parte dei soggetti titolari del relativo diritto, ma anche da parte di terze persone che al fine di utilizzare l'effigie altrui per motivi di lucro, ricorrono a subdoli artifizi diretti ad eludere la norma che individua nel consenso dell'interessato l'elemento autorizzante la diffusione a fini commerciali dell'immagine.

 Avv. Matteo Santini

La quantificazione del danno in caso di abusivo utilizzo dell'immagine altrui

Pubblicato su Diritto & Giustizia (Ed. Giuffré n. 29 del 2005)

La tutela dell'immagine di un soggetto, si esplica nel diritto di ogni persona, nota o sconosciuta, ad opporsi ad un'abusiva e non autorizzata divulgazione da parte di terzi, delle proprie sembianze e fattezze. Questo significa che la normativa vigente, attribuisce ad ogni individuo il c.d. “right to be alone” (diritto di essere lasciato solo), al riparo da indebite interferenze che possano costituire un'aggressione alla nostra Privacy.

 

Il diritto alla riservatezza, consiste nella tutela di situazioni e vicende di natura personale, dalla conoscenza e curiosità pubblica ma anche nel potere di controllare che i dati che ci riguardano, siano trattati in modo corretto e veritiero. In questo senso il diritto all'immagine, intendendosi per tale, la rappresentazione delle sembianze individuali, costituisce una species rispetto alla più ampia categoria del diritto alla riservatezza.

 

Il diritto all'immagine, che rientra a pieno titolo tra i diritti della personalità, è il diritto della persona ritratta a non veder resa pubblica o sfruttata la propria immagine, vale a dire il diritto alla non conoscenza delle sembianze fisiche di una persona. Si tratta di un diritto assoluto e a cui neanche il soggetto titolare potrebbe rinunziare, privandosene definitivamente o alienandolo ad altri.

 

D'altra parte, è stato elaborato anche un contenuto positivo del diritto all'immagine, consistente nel diritto di ognuno di decidere quando ed entro quali limiti apparire in pubblico e di sfruttare economicamente la propria immagine ed il proprio ritratto, ottenendo un corrispettivo in cambio del consenso alla diffusione.

 

In quest'ottica si delinea il criterio risarcitorio primario, elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza in riferimento agli utilizzi non autorizzati dell'immagine altrui da parte di terzi. Il metodo fondamentale per la quantificazione del risarcimento viene individuato nel c.d. prezzo del consenso, ovvero nel prezzo che il soggetto del quale è stata utilizzata l'immagine avrebbe ottenuto, qualora avesse concesso ad altri il diritto a diffondere a fini commerciali e pubblicitari la propria immagine. 

 

Si tratta di danno risarcibile di natura patrimoniale, comportando il venir meno per l'interessato della possibilità di offrire l'uso del proprio ritratto per fini commerciali (Cass. civ., sez. I, 16-04-1991, n. 4031 - Trib. Torino, 7 aprile 1954 - Cass. Civ. 10-11- 1979, n. 5790).

 

E' evidente che per legittimare una domanda di risarcimento di danno patrimoniale, vi debba essere necessariamente un pregiudizio economico.

 

Viene pertanto spontaneo chiedersi, come venga quantificato e determinato il risarcimento dei danni, qualora ad essere abusivamente utilizzata a fini commerciali sia l'immagine non di un soggetto noto bensì di un “semplice cittadino”.

 

In questo caso, non si può certamente fare riferimento al criterio del prezzo del consenso; e ciò in virtù del fatto che il soggetto “sconosciuto” non è solito consentire dietro pagamento lo sfruttamento della sua immagine e risulta assai arduo stabilirne il prezzo del consenso.

 

In verità non potrebbe in alcun modo escludersi il diritto al risarcimento del danno solo a causa della non notorietà del soggetto. Si tratta piuttosto di un problema d'individuazione, prova e quantificazione del danno patrimoniale subito. L'assenza di un valore di “mercato” del soggetto sconosciuto ci spinge ad individuare nuovi e spesso più elaborati criteri per la quantificazione della lesione patrimoniale. A ben vedere anche se non esiste un vero prezzo di mercato dell'immagine dello sconosciuto, il suo illecito utilizzo determina comunque un danno da qualificarsi come lucro cessante. Si tratta del corrispettivo che il soggetto avrebbe ottenuto, qualora avesse acconsentito a terzi lo sfruttamento della propria immagine a fini commerciali. Benché in misura minore e certamente non paragonabile al corrispettivo dovuto ad un soggetto noto, anche l'immagine di uno sconosciuto ha il suo prezzo. Basti pensare al costante ricorso che viene fatto nel corso delle riprese dei film, ai figuranti e alle comparse. D'altronde anche le immagini di ignari sconosciuti, spesso contenute nei cataloghi promozionali di beni o servizi (es: agenzie di viaggi), hanno il loro prezzo, rappresentato dal corrispettivo che l'utilizzatore avrebbe dovuto corrispondere qualora avesse stipulato con il soggetto ritratto, un contratto di sfruttamento di immagine.

 

In tal senso appare interessante il caso di quel cittadino che, dopo essersi recato presso un negozio di un fotografo per la realizzazione di alcune foto tessera per uso personale, si è visto inserire indebitamente la propria immagine in un depliant pubblicitario. In questa ipotesi il Giudice di Pace di Cesena ha quantificato il risarcimento del danno, nella somma ordinariamente corrisposta ad una modella non famosa che posa su commissione.

 

Il problema del risarcimento può essere analizzato anche sotto un'altra angolatura, rappresentata dall'ingiustificato risparmio di spese o dall'ingiustificato arricchimento dell'usurpatore. Ci spostiamo così da una concezione di tipo risarcitoria ad una di tipo restitutoria, con un danno derivante dalla privazione o lesione di un potere dispositivo (Plaia, Proprietà intellettuale e risarcimento del danno, Torino, 2003) e conseguente ingiustificato spostamento di ricchezza.

 

A prescindere dall'orientamento al quale si voglia aderire, non sono ritenuti cumulabili i criteri del risarcimento da quantificare come compenso presumibile e come ingiustificato arricchimento. In tal caso si rischierebbe, infatti, di ricorrere a criteri (risarcitorio e restitutorio), che devono essere necessariamente alternativi tra loro.

 

Per non incorrere nella pericolosa equazione soggetto famoso = alto valore di mercato della sua immagine, è necessario sottolineare che non sempre le immagini di persona nota possiedono un valore di mercato. Ci riferimento alle ipotesi in cui il soggetto, seppur famoso, non avrebbe mai acconsentito ad un utilizzo della sua immagine a fini commerciali (app. Milano, 3 novembre 1997) e pertanto non vi sarebbe alcun danno patrimoniale. La Corte, ha affermato che: "non traendo l'attore lucro dalla messa in commercio della propria immagine, nessun pregiudizio di natura economica può affermarsi aver egli subito in dipendenza dell'illecito commesso dalle convenute sotto forma di mancato conseguimento del compenso”.

 

Con riferimento alle numerose richieste di risarcimento dei danni morali, nei casi di sfruttamento abusivo dell'immagine altrui, sia il combinato disposto degli articoli 2059 c.c. e 185 c.p., che numerose pronunzie della Giurisprudenza, propendevano per un'esclusione della sua risarcibilità a meno che non venisse accertato in sede giudiziale un pregiudizio all'onore, alla reputazione o al decoro della persona.

 

L'orientamento giurisprudenziale più recente ammette invece la risarcibilità dei danni non patrimoniali, a prescindere dalla qualificazione dell'illecito come reato, qualora ad essere lesi siano diritti della persona costituzionalmente garantiti. “Il danno non patrimoniale conseguente all'ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all'articolo 185 cod. pen.” (Cass. Civ. III, 31-05-2003 n. 8827).

 

Alla luce della suddetta sentenza, il danno non patrimoniale assume una valenza molto ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona, non esaurendosi esso nel danno morale soggettivo.

 

In quest'ottica, si tenta di considerare alcune nuove figure di danno alla persona di matrice giurisprudenziale e dottrinale, come sottovoci del danno non patrimoniale ammettendone la risarcibilità secondo il criterio equitativo e rispettando in ogni caso il sistema della bipolarità prevista dal codice civile, tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.).

 

L'inevitabile conseguenza del suddetto criterio interpretativo, è l'enorme espansione della categoria del danno non patrimoniale risarcibile, che si arricchisce di giorno in giorno di nuove figure, create dallo sforzo delle Corti di legittimità e di merito, di considerare il singolo comportamento illecito, come lesivo di interessi primari costituzionalmente rilevanti, qualificandolo come danno esistenziale.

 

Nascono in tal senso figure quali il risarcimento per ritardata attivazione di schede telefoniche (Giudice di Pace di Verona 19-06-2000), il danno per errato taglio di capelli (Giudice di Pace di Catania 25-04-1999), per ritardata riattivazione del servizio telefonico (Giudice di Pace di Roma 11-07-200)3, per l'inserimento dei volantini nella buca delle lettere (Giudice di Pace di Bari 22-12-2003). Tutto questo con il rischio di volere collocare ad ogni costo, danni di difficile qualificazione, nella categoria del danno esistenziale, individuando presunte lesioni di interessi costituzionalmente garantiti.

 

D'altro canto una corretta interpretazione del concetto di danno esistenziale e dei comportamenti che possono realmente integrare gli estremi di lesione di interessi primari di rango costituzionale, introduce nell'ambito della categoria del danno non patrimoniale, alcune figure di danno degne certamente di essere risarcite. Si possono citare ad esempio, il danno da mobbing, il danno da immissioni acustiche (Tribunale di Milano 21-10-1999), il danno da lite temeraria (Tribunale di Bologna 27-01-2005).

 

Nel corso degli anni, numerosi sono stati i tentativi ad opera di parte della dottrina, di attribuire alla definizione di patrimonio una valenza più ampia, riformulando lo stesso concetto, nel tentativo di superare l'equazione: lesione di un interesse patrimoniale = danno al patrimonio; tutto ciò al fine di ammettere la risarcibilità, nei casi di lesioni ai diritti della personalità, non produttive di danni patrimoniali tradizionalmente intesi. In questa ottica il concetto di patrimonio "andrebbe considerato non solo nei suoi elementi economici, non solo nei rapporti giuridici che afferiscono la persona, ma anche in quel complesso di utilità, di vantaggi, di comodità e di benessere che, pur non trovando una valutazione pecuniaria corrente secondo stime di mercato, non per questo non possono diventare passibili di una valutazione economica, secondo una certa coscienza sociale tipica del momento" (Franzoni, I fatti illeciti, in  Commentario al codice civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993).

 

In materia di abusivo utilizzo dell'immagine altrui, merita una particolare considerazione il c.d. diritto all'identità personale. Spesso l'utilizzo non autorizzato dell'effigie altrui, determina accanto ad un danno strettamente patrimoniale (prezzo del consenso) anche un danno all'identità personale del soggetto.

 

Per identità personale si intende, l'immagine sociale, cioè il coacervo di valori (intellettuali, politici, religiosi, professionali, ecc.) della persona ed il conseguente diritto della stessa, ad essere riconosciuta e giudicata per le posizioni assunte nei rapporti sociali, ovvero come diritto all'intangibilità della propria immagine sociale, e la sua lesione è ravvisabile qualora detta immagine risulti distorta in conseguenza di inesatte rappresentazioni della realtà (Trib. di Milano 07-10-1993). Essa corrisponde all'interesse di ogni individuo ad essere rappresentato coerentemente al proprio modo di essere e di comportarsi ed è stata definita come il "diritto a che non sia travisata la propria immagine politica, etica o sociale con l'attribuzione di azioni non compiute dal soggetto o di convinzioni da lui non professate" (Galgano, Diritto civile e commerciale, I, Padova, 1993).

 

Appare evidente che trattasi di un diritto della personalità, la cui lesione si accompagna spesso alla lesione del diritto all'immagine. Ma a parere dello scrivente i due diritti sono cosa assolutamente distinta ed il diritto all'identità personale non può in alcun modo essere considerato come un aspetto del diritto all'immagine.

 

Mentre il diritto all'immagine tutela la posizione del singolo in ordine alla diffusione verso l'esterno del proprio ritratto e delle proprie sembianze e fattezze, il diritto all'identità personale tutela la proiezione sociale dell'interessato, intesa come complesso di valori morali, politici, culturali e soprattutto la loro veritiera e corretta rappresentazione.

 

Ma le difficoltà maggiori, in relazione al diritto all'identità personale nascono quando nel caso specifico ci si trova a dovere quantificare e qualificare l'eventuale danno derivante dalla lesione del suddetto diritto.

 

Ove si aderisse alla tesi che nega la tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge, sarebbe necessario uno sforzo interpretativo diretto ad individuare il danno patrimoniale, seppure indiretto, cagionato dalla lesione del diritto all'identità personale per ricomprendere tale lesione nell'ambito dell'articolo 2043 del codice civile.

 

Troppo facile e sbrigativo sarebbe, in questo caso, risolvere la questione, individuando accanto alla lesione dell'identità personale, anche la lesione dell'onore e reputazione, con configurazione del reato di diffamazione e conseguente diritto al risarcimento del danno non patrimoniale. In realtà ben possono sussistere ipotesi di lesioni all'identità personale a cui non si accompagni una lesione dell'onore e della reputazione (vedasi Trib. Pescara, 5 ottobre 1987 – Trib. Verona 26-02-1996 – Trib. Roma 24-05.2005).

 

Ed è proprio intorno alla tutela risarcitoria che va costruita l'essenza del danno all'identità personale. Al fine di non costruire un diritto, la cui tutela resterebbe lettera morta in mancanza della possibilità per danneggiato di essere risarcito, è necessario ogni sforzo diretto ad individuare una lesione, seppure indiretta, al patrimonio del soggetto.

 

In tal senso, appare particolarmente calzante la sentenza del Tribunale di Verona che qualifica come danno all'identità personale e nella fattispecie all'identità politica, quello subito da sacerdote a cui era stata falsamente attribuita - in un volantino elettorale - l'appartenenza ad un movimento politico. Viene in essa sostenuto che il danno provocato, sarebbe comunque un danno al patrimonio, per i suoi riflessi nell'ambito del patrimonio culturale, familiare ed estensivamente sociale (Trib. Verona 26-02-1996).

 

Certamente il riferimento al patrimonio in questo caso sembrerebbe piuttosto artificioso, ma sicuramente il danno prodotto avendo ripercussioni nell'ambito della società, provoca un venir meno di utilità, vantaggi e comodità che possono trovare anche se indirettamente, una valutazione economica secondo la coscienza sociale tipica del momento.

 

Nel caso esaminato dal Tribunale di Verona, ci troviamo certamente di fronte ad un illecito che aggredisce dei beni estranei al patrimonio strettamente inteso, ma che provoca in ogni caso indirettamente un danno valutabile in termini economici. La distorsione dell'immagine e dell'identità del soggetto causerebbe una maggiore difficoltà per lo stesso ad inserirsi correttamente nell'ambito nei rapporti sociali, con conseguente diminuzione del proprio prestigio, della propria credibilità, determinando tra le altre cose un venir meno di utilità e opportunità, valutabili anche economicamente.

 

Se invece volessimo aderire all'orientamento giurisprudenziale più recente e ormai prevalente, che ammette la risarcibilità dei danni non patrimoniali anche a prescindere dall'esistenza di un reato, le difficoltà nell'ammettere la risarcibilità del danno per lesione del diritto all'identità personale, sarebbero praticamente inesistenti, in quanto nessuno potrebbe negare la valenza costituzionale, del diritto all'identità personale.

 

Avv. Matteo Santini

I vizi nella vendita degli animali                                                        

 

 

La vendita degli animali è disciplinata, sotto il profilo della garanzia per i vizi, dall'articolo la 1496 del codice civile il quale prevede che, tale garanzia venga regolata principalmente dalle leggi speciali o, in mancanza, dagli usi locali e ove neppure questi dispongano, dalle norme generali sulla vendita, contenute nel codice ed in particolare dall'articolo 1490 il quale sancisce che: “il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi che la rendano inidonea all'uso a cui è destinata o ne diminuiscano in modo apprezzabile il valore.

Il patto con cui si esclude o si limita la garanzia non ha effetto, se il venditore ha in mala fede taciuto al compratore i vizi della cosa”.

 

In materia di vendita di animali, sulla base delle disposizioni del codice Civile, applicabili in mancanza di leggi speciali o, in via subordinata degli usi locali, la garanzia per vizi è dovuta dal venditore indipendentemente dalla colpa e per il solo fatto oggettivo della loro presenza. Essa è esclusa soltanto se, ai sensi dell'art. 1491 cod. civ., il compratore era a conoscenza dei vizi o se gli stessi erano facilmente riconoscibili, salvo, in quest'ultimo caso, che il venditore abbia dichiarato che l'animale ne era esente.

 

Pertanto, qualora l'animale sia risultato affetto da malattia manifestatasi alcuni giorni dopo la consegna, costituisce onere probatorio posto a carico del venditore dimostrare che la malattia sia stata provocata dall'ingestione accidentale di sostanze tossiche o comunque da cause sopravvenute alla consegna del bene.

 

L'acquirente di un cucciolo di pastore tedesco aveva chiesto la risoluzione del contratto di vendita, deducendo che l'animale era risultato affetto da malattia congenita che ne aveva determinato la morte. La Corte di Cassazione in sentenza n. 9330 del 17.05.2004, ha cassato la sentenza impugnata che aveva rigettato la domanda ritenendo che l'attore non avesse assolto l'onere probatorio, su di lui incombente, di dimostrare che il difetto patologico e letale - determinato da una malattia congenita - non fosse dipeso da cause accidentali sopravvenute all'acquisto.

 

Accade infatti spesso, nella vendita di animali, sia da affezione che da macello o da allevamento, che la patologia si manifesti solo in un momento successivo alla consegna del bene e pertanto sorge l'arduo compito di individuare ed accertare se tale patologia fosse già in atto al momento della vendita o se il contagio o la malattia si sia invece manifestata per la prima volta successivamente alla consegna.

 

Il problema è di notevole importanza, non solo al fine di accertare ed individuare l'eventuale responsabilità per inadempimento contrattuale, ma anche in considerazione della pronunzia di nullità del contratto che consegue alla vendita degli animali definiti come contagiosi dai regolamenti di polizia veterinaria.

 

Dalle disposizioni del R.D. 10 maggio 1914 n. 533 e del D.P.R. n. 320 del 08.02.1954 si desume che, l'animale affetto da una delle malattie infettive indicate dalle norme in questione, non possa essere venduto e la relativa compravendita sia nulla ex lege, con spettanza all'acquirente dell'azione generale contrattuale per mancanza di uno dei requisiti essenziali dell'oggetto.

 

La Corte di Cassazione, sez. II, in sentenza del 10-08-1977, n. 3690 ha infatti affermato che: “ Nelle vendite di animali, se l'animale è affetto da una delle malattie contagiose elencate nel regolamento di polizia veterinaria, e per le quali è previsto l'isolamento o il sequestro, (nella specie, salmonellosi), il negozio deve ritenersi nullo per illiceità dell'oggetto derivante dal divieto di alienazione, il quale sussiste anche se l'incommerciabilita di cui trattasi non è espressamente disposta dal regolamento predetto”.

 

L'eventuale dichiarazione di nullità della vendita degli animali affetti da patologie disciplinate da regolamenti di polizia veterinaria, non comporta automaticamente l'obbligo per venditore di risarcire i danni all'acquirente.

Il venditore è tenuto al risarcimento dei danni patiti dal compratore solo quando, conoscendo o dovendo conoscere la causa di nullità del contratto (patologia dell'animale), non ne abbia dato notizia al compratore e questi abbia confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto. Sarà pertanto il venditore a dover dimostrare di aver ignorato senza colpa l'esistenza della patologia in atto.

 

Se invece l'animale venduto risulta affetto da patologia non contemplata nei regolamenti di polizia veterinaria, non possiamo più parlare di nullità del contratto per illiceità dell'oggetto ma eventualmente di inadempimento; assume pertanto fondamentale rilievo l'indagine diretta ad accertare il luogo ed momento esatto dell'insorgere della patologia, al fine di individuare il soggetto a cui “imputare l'evento”.

Così il Tribunale Perugia, 26-01-1996  Nell'ipotesi di compravendita di un animale (nel caso di specie, un cane) ove lo stesso muoia in seguito a una malattia non prevista dal regolamento veterinario (ipotesi che rende nullo il contratto) il compratore è legittimato ad esperire l'azione redibitoria”.

 

Per l'ammissibilità dell'azione di risoluzione contrattuale per inadempimento, riveste un ruolo primario anche la tempestività della denunzia dei vizi (malattia dell'animale) da parte del compratore. Ai sensi dell'articolo 1495 del codice civile il compratore decade dal diritto alla garanzia, se non denunzia i vizi al venditore entro otto giorni dalla scoperta, salvo il diverso termine stabilito dalle parti o dalla legge.

 

La denunzia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l'esistenza del vizio o l'ha occultato. L'occultamento dei vizi della cosa venduta nel caso di vendita di animali, per dispensare il compratore dall'onere della denunzia, ai sensi dell'art. 1495 comma secondo cod. civ., non può consistere nel semplice silenzio da parte del venditore, ma esige una particolare attività illecita dello stesso, effettuata con artifici appositamente diretti a nascondere l'esistenza della malattia.

 

Il termine di 8 giorni decorre dalla consegna dei capi esclusivamente quando la malattia si manifesta palesemente mentre, per le malattie non rilevabili attraverso un rapido e sommario esame dell'animale, il termine decorre dal momento della loro scoperta, la quale ricorre allorché il compratore abbia acquisito la certezza oggettiva della esistenza del vizio. (vedi Cass., 30 agosto 2000, n. 11452).

 

E' evidente che nella vendita di animali, i vizi della cosa venduta possono essere rappresentati non solo da una patologia dei capi di bestiame, ma anche da difetti di qualità, di dimensioni, peso, misura od alle caratteristiche dei singoli capi.

 

In caso di vizi rilevanti, il compratore ai sensi dell'articolo 1492 del codice civile potrà domandare a sua scelta o la risoluzione del contratto ovvero la riduzione del prezzo, salvo che, per determinati vizi, gli usi o normative specifiche escludano la risoluzione (vizi non rilevanti).

 

Se poi gli animali venduti muoiono in conseguenza dei vizi (malattia), il compratore ha diritto alla risoluzione del contratto; se invece la morte sopravviene per caso fortuito o per colpa del compratore, egli non può domandare che la riduzione del prezzo.

 

Quando invece gli animali, pur avendo le caratteristiche pattuite, vengano consegnati in numero inferiore a quello convenuto, il venditore incorre in inadempimento parziale ed il compratore ha diritto, a seconda delle particolarità concrete, o alla consegna del quantitativo mancante o alla risoluzione del contratto o alla riduzione del prezzo, ferma restando l'eccezione d'inadempimento di cui all'art. 1460 cod. civ., senza che a dette azioni siano applicabili le condizioni ed i termini di cui all'art. 1495 cod. CIV..

 

In ogni caso, quando in compratore opta per la risoluzione del contratto, il venditore dovrà restituire il prezzo di acquisto e rimborsare al compratore le spese e i pagamenti legittimamente fatti per la vendita.

Il compratore dal canto suo, dovrà restituire gli animali, qualora, ovviamente, essi non siano periti a causa della malattia.

 

Il venditore sarà inoltre tenuto verso il compratore al risarcimento del danno, se non prova di avere ignorato senza colpa i vizi della cosa e dovrà altresì risarcire al compratore i danni derivati dai vizi della cosa (accade frequentemente che altri animali di proprietà del compratore vengano contagiati dai capi malati).

Avv. Matteo Santini

Il danno da vacanza rovinata

Il danno da vacanza rovinata consiste nel pregiudizio al benessere psicologico subito nel periodo destinato al riposo e allo svago.Si tratta dei cosiddetti “emotional distress” subiti dal viaggiatore a causa della mancanza o del cattivo funzionamento dei servizi previsti dal contratto stipulato con l'organizzatore del viaggio.

La responsabilità dell'organizzatore trova fondamento nelle disposizioni della Convenzione di Bruxelles del 23-04-1970 (Convenzione internazionale relativa ai contratti di viaggio) resa esecutiva in Italia dalla Legge n. 1084 del 27.12.1977 e nelle disposizioni del D. Lgs. 17.03.1995 n. 111 attuativo della direttiva 90/314/CEE.

Il primo aspetto su cui porre l'attenzione è quello dell'individuazione dei soggetti tenuti al risarcimento nelle ipotesi di danno da vacanza rovinata.

La Convenzione internazionale relativa ai contratti di viaggio (di seguito “CCV”) identifica come soggetti responsabili sia l'organizzatore (Tour Operator) che l'intermediario del viaggio (Travel Agent).

 Per organizzatore di viaggio si intende, la persona che si impegna a suo nome a procurare ad un'altra per mezzo di un prezzo globale, un insieme di prestazioni comprendenti il trasporto, il soggiorno separato dal trasporto o qualunque altro servizio che ad essi si riferisca. L'attività organizzativa deve rivestire il carattere dell'abitualità, mentre nessun rilievo viene attribuito alla professionalità. 

L'intermediario di viaggio è invece definito come la persona che si impegna a procurare ad un'altra, dietro pagamento di un prezzo, sia un contratto di organizzazione di viaggio, sia uno o dei servizi separati che permettono di effettuare un viaggio o un soggiorno qualsiasi.

Nell'articolo 13 della CCV, è contenuta la disposizione normativa specifica che identifica e disciplina la tutela risarcitoria nelle caso di danno da vacanza rovinata. “L'organizzatore di viaggi risponde di qualunque pregiudizio causato al viaggiatore a motivo dell'inadempimento totale o parziale dei suoi obblighi di organizzazione quali risultano dal contratto o dalla presente Convenzione, salvo che egli non provi di essersi comportato da organizzatore di viaggi diligente”. 

La natura della responsabilità dell'organizzatore / intermediatore è senz'altro contrattuale. Nel caso in cui la prestazione oggetto del contratto di viaggio non venga eseguita correttamente, egli è tenuto innanzitutto al risarcimento dei danni (danno emergente e lucro cessante) ai sensi degli articoli 1218 e 1223 del codice civile.

Il danno emergente da inadempimento del contratto di viaggio è costituito dalle somme sborsate dal viaggiatore per l'acquisto del viaggio e per l'acquisto di tutti quei servizi previsti nel contratto ma non forniti dall'organizzatore (es: trasporti, cibi, pernottamenti, ecc.). 

Il danno da mancato guadagno nel caso di inadempimento dell'organizzatore / intermediario è rappresentato dalla mancata disponibilità delle somme corrisposte per il viaggio.

 Ma il cosiddetto danno da vacanza rovinata è senz'altro qualche cosa di diverso ed ulteriore rispetto al semplice pregiudizio economico per il minor valore dei servizi resi.

 Esso si configura come un danno di natura non patrimoniale e consiste nella sofferenza, nel turbamento psicologico e nell'incidenza negativa sulla qualità della vita del turista la cui vacanza è stata rovinata (Giudice di Pace di Monza 19.10.2002). 

Si tratta di tutti quei disagi che vengono sopportati dal turista durante la vigenza del contratto di viaggio e che sono conseguenza diretta dell'inadempimento totale o parziale dell'organizzatore / intermediario.

 Nella maggioranza dei casi, questi disagi sono rappresentati da ritardi nelle partenze dei mezzi di trasporto e/o da mancata erogazione di alcuni servizi negli alloggi (es: aria condizionata, energia elettrica, igiene, pulizia, ecc.) o dalla mancanza degli altri servizi previsti dal contratto di viaggio o indicati nei vari documenti di viaggio, quali opuscoli informativi e brochure o da omessa indicazione di informazioni essenziali (es: necessità di vaccinazioni).

 A parere dello scrivente possono essere considerati risarcibili come danni da vacanza rovinata, anche ulteriori danni connessi alla mancata comunicazione da parte dell'organizzatore di informazioni essenziali circa il luogo di destinazione e l'alloggio. Si tratta di quegli elementi che se non fossero stati dolosamente o colposamente taciuti dall'organizzatore avrebbero indotto il viaggiatore a desistere dal sottoscrivere il contratto di viaggio. Ci riferiamo ad esempio all'omessa informazione circa le avverse condizioni climatiche in un determinato periodo, in alcune località. Si tratta infatti di elementi oggettivi, agevolmente conoscibili da un professionista del settore ma che spesso non sono oggetto di conoscenza da parte del singolo viaggiatore.  

Anche l'esatta ubicazione e la qualità dell'alloggio concordato e dei servizi erogati, rivestono senza dubbio un carattere preminente nella determinazione del danno da vacanza rovinata, quando nel caso specifico il viaggiatore si trovi costretto a soggiornare in strutture di qualità inferiore rispetto a quanto previsto nel contratto di viaggio.

 Il danno da vacanza rovinata può essere considerato come un danno non patrimoniale derivante da inadempimento contrattuale.  

In passato la Giurisprudenza di merito ha più volte negato la risarcibilità dei danni da vacanza rovinata, sulla base di una stretta interpretazione dell'articolo 2059 del codice civile, il quale ammette la risarcibilità dei danni non patrimoniali solo qualora si configuri l'ipotesi di un reato (Trib. di Venezia 24.09.2000).

Recentemente si assiste ad un inversione di tendenza diretta ad ammettere la risarcibilità del danno non patrimoniale da vacanza rovinata, anche a prescindere dall'esistenza di un reato.

 In effetti è proprio nell'articolo 2059 del codice civile che va ravvisata a parere dello scrivente, la chiave per ammettere la risarcibilità dei danni da vacanza rovinata. L'articolo 2059 infatti, consente la risarcibilità dei danni non patrimoniali “solo nei casi determinati dalla legge”.  Ed in verità è proprio la legge in questo caso a giustificarne la risarcibilità. Ci riferiamo all'articolo 13 della Convenzione di Bruxelles relativa ai contratti di viaggio che ammette espressamente la risarcibilità di “qualunque pregiudizio causato al viaggiatore”. Si tratta pertanto di un'ipotesi di danno non patrimoniale eccezionalmente risarcibile alla luce del diritto comunitario, recepito attraverso la ratifica della Convenzione di Bruxelles da parte dell'Italia con la legge 1084/1977.  

Particolarmente calzante appare in tal senso la decisione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea nel procedimento C-168/00 la quale ha sancito che: “l'articolo 5 della direttiva del Consiglio 13 giugno 1990, 90/314/CEE, concernente i viaggi, le vacanze ed i circuiti “tutto compreso”, deve essere interpretato nel senso che il consumatore ha diritto al risarcimento del danno morale derivante dall'inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni fornite in occasione di un viaggio “tutto compreso”.  

La Corte di Giustizia Europea nel suddetto caso ha ammesso l'indennizzabilità dei danni morali da vacanza rovinata, interpretando l'articolo 5 n. 2 comma 4 della direttiva 90/314/CEE il quale fa esplicito riferimento ai “danni diversi da quelli corporali derivanti dall'inadempimento o dalla cattiva esecuzione delle prestazioni”.

La questione fu sottoposta alla Corte di Giustizia Europea dalla Corte di Appello Austriaca sulla base di una richiesta risarcitoria avanzata da un cittadino austriaco la cui figlia, nel corso di una vacanza organizzata in Turchia aveva accusato un'intossicazione alimentare da salmonellosi provocata dalle bevande servite nell'albergo. Il Giudice di prima istanza, accolse la domanda relativa al risarcimento dei danni dovuti all'intossicazione, ma negò la richiesta risarcitoria dei danni morali. 

Per ciò che concerne la quantificazione del danno da vacanza rovinata, stante l'impossibilità di determinazione dello stesso nel suo preciso ammontare, sia la giurisprudenza che la dottrina, concordano nel ritenere come soluzione corretta, la liquidazione equitativa ad opera del giudice ai sensi dell'articolo 1226 del codice civile (Trib. di Milano 16.10.2001). 

La responsabilità dell'organizzatore o dell'intermediario ai sensi dell'articolo 13 della CCV è presunta ed incombe su tali soggetti l'onere di provare la diligenza nel proprio comportamento e che l'evento pregiudizievole è stato determinato da circostanze inevitabili con l'utilizzo dell'ordinaria diligenza. E' il caso di quegli eventi e di quelle situazioni definite come imprevedibili e al di fuori del controllo dell'organizzatore, il quale pur essendosi comportato da organizzatore diligente e pur avendo posto in essere ogni accorgimento diretto a garantire l'esatta esecuzione del contratto di viaggio, non riesce ad impedire il verificarsi dell'evento. Si tratta senza dubbio dei danni occorsi a seguito di eventi eccezionali non prevedibili e determinati da cause di forza maggiore o dal caso fortuito. 

La responsabilità per danno da vacanza rovinata, non può in alcun caso essere contrattualmente esclusa, in quanto l'inserimento nel contratto di viaggio di una clausola limitativa della relativa responsabilità produrrebbe automaticamente la nullità della stessa clausola ai sensi dell'articolo Articolo 31 della CCV il quale prevede la nullità di qualsiasi stipula che, direttamente o indirettamente, deroghi alle disposizioni della Convenzione in un senso sfavorevole al viaggiatore o che stabilisca un inversione dell'onere della prova in ordine alla responsabilità.

La nullità di tale stipulazione non comporta comunque la nullità del contratto.

 Le disposizioni della Convenzione di Bruxelles in materia di responsabilità dell'organizzatore di viaggi, sono state sostanzialmente ribadite dalla direttiva n. 90/314/CEE concernente i viaggi “tutto compreso” e dal D. Lgs 17.03.1995 n. 111 attuativo della suddetta direttiva. 

I limiti della responsabilità dell'organizzatore sono indicati al secondo comma dell'articolo 13 della CCV, il quale disciplina la misura massima dell'indennità dovuta per ciascun viaggiatore e sono richiamati dalle disposizioni del D. Lgs. 111/1995 il quale consente alle parti di concordare limiti di risarcimento per danni alle cose o alle persone superiori a quelli previsti dalla C.C.V. 

Prima di concludere la nostra esposizione, è opportuno porre l'accento sulla disposizione di cui all'articolo 12 comma 4 del D. Lgs 111/1995, la quale contempla un'ipotesi piuttosto frequente nelle pratica e la cui disciplina è spesso sconosciuta dal viaggiatore. La norma prevede che nel caso in cui una parte essenziale dei servizi previsti dal contratto di viaggio non possa essere effettuata, l'organizzatore dopo la partenza del viaggiatore, possa predisporre delle soluzioni alternative per la prosecuzione del viaggio non comportanti oneri a carico del viaggiatore o rimborsare quest'ultimo nei limiti della differenza tra le prestazioni originariamente previste e quelle effettuate, salvo comunque il diritto al risarcimento del danno a favore del viaggiatore in caso di comportamento colposo dell'organizzatore.

La norma prevede inoltre che qualora la suddetta soluzione alternativa non sia possibile o essa non venga accettata dal viaggiatore per giustificato motivo, l'organizzatore debba mettere a disposizione un mezzo di trasporto adeguato, per il ritorno al luogo di partenza e restituire la differenza tra il costo delle prestazioni previste e quello delle prestazioni effettuate sino al rientro anticipato.

 Avv. Matteo Santini      

La tutela della privacy e dell'immagine del dipendente privato

La materia della privacy è attualmente regolamentata dal Decreto Legislativo del 30 giugno 2003 n. 196 e dalla Legge n. 633 del 1941.

 

L'articolo 97 della Legge 633/1941 (legge sulla protezione del diritto di autore) individua e codifica una serie di circostanze che legittimano l'utilizzo dell'immagine altrui a prescindere dal consenso dell'interessato: “Non occorre il consenso della persona ritrattata, quando la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.

Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l'esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata”.

 

In assenza di tali esimenti, il consenso dell'interessato, è il principale elemento che esonera dalla responsabilità, il soggetto che espone, riproduce o mette in commercio l'immagine altrui.

 

Nell'instaurazione di un rapporto di lavoro tra datore e dipendente, si rende necessario per il primo, raccogliere, acquisire e trattare una serie di dati del secondo, per il corretto svolgimento del rapporto contrattuale e in adempimento a specifiche disposizioni di legge.

 

I dati sono raccolti e trattati dal datore di lavoro, previo invio di apposita informativa sulla privacy, alla quale deve seguire il consenso espresso dell'interessato.

 

Vi sono dati, il cui eventuale rifiuto nel fornirli, renderebbe impossibile l'esecuzione del contratto di lavoro, mentre vi sono altri dati la cui mancanza del consenso all'acquisizione da parte del dipendente, renderebbe l'esecuzione del rapporto contrattuale più difficoltoso, in vista della realizzazione degli obiettivi aziendali del datore di lavoro. A tal proposito il D. Lgs. 196/2003 impone al soggetto che acquisisce i dati, l'obbligo di indicare nell'informativa, le possibili conseguenze di un eventuale rifiuto di rispondere da parte dell'interessato. Esistono pertanto dati ed informazioni in riferimento ai quali, l'eventuale rifiuto a fornirli o al successivo trattamento può avere come conseguenza, l'impossibilità o la semplice difficoltà a dare esecuzione al contratto di lavoro. La mancanza del consenso al trattamento di dati necessari per dare esecuzione al rapporto di lavoro, comporterà l'impossibilità di dar corso allo stesso mentre, la mancanza del consenso in ordine a dati ritenuti come non strettamente necessari ma comunque definiti “importanti” o “utili” per l'azienda, verrà valutata di volta in volta dal datore di lavoro e comporterà le conseguenze rimesse alla sua scelta.

 

L'informativa da sottoporre al dipendente all'atto dell'assunzione, dovrà fare riferimento, non solo alla natura dei dati, ma anche alle finalità e modalità del trattamento e dovrà contenere gli estremi identificativi del titolare e degli incaricati al trattamento, dei soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza.

 

L'articolo 7 del D. Lgs. 196/2003 sancisce che, l'interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:

“a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano ancorché pertinenti allo scopo della raccolta;

b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale”.

 

Ci spostiamo pertanto sul piano dei motivi legittimanti un'eventuale mancanza del consenso da parte del dipendente o la sua successiva revoca. Per “motivi legittimi” deve intendersi a parere dello scrivente, ragioni o esigenze obiettive e documentabili. Non esiste ad oggi, alcuna codificazione delle ragioni, legittimanti l'opposizione o la revoca del consenso al trattamento. Dovrà comunque trattarsi di argomentazioni serie e soprattutto, nell'ambito di un rapporto contrattuale in corso, il motivo del rifiuto o della revoca del consenso dovrà essere oggettivamente prevalente rispetto al motivo e all'esigenza che hanno indotto la controparte a richiedere l'acquisizione e il trattamento dei dati personali.

 

Anche in presenza di un esplicito consenso al trattamento, la legge si preoccupa di disciplinare il modo in cui i dati debbano essere trattati. L'articolo 11 del D. Lgs 196/2003, impone che i dati acquisiti e trattati debbano essere pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per i quali sono raccolti o successivamente trattati.

 

L'inserimento nei badge aziendali di informazioni sulla residenza o sui numeri telefonici personali del lavoratore, potrebbe essere ritenuta come illegittima, in quanto la comunicazione dei dati non sarebbe strumentale o connessa alle esigenze aziendali ed esporrebbe peraltro il dipendente al pericolo di molestie o contatti indesiderati da parte di altri lavoratori o terze persone, al di fuori dell'ambito e del contesto lavorativo.

 

Il Garante ha specificato che, non risulta alcuna utilità che appaiano sul cartellino (badge) dati identificativi personali diversi dall'immagine fotografica, dal ruolo professionale svolto ed eventualmente da un nome, un numero o una sigla e che pertanto anche l'inserimento di informazioni relative all'età del dipendente sarebbero da considerare come elemento estraneo e sproporzionato rispetto ai fini aziendali.

 

In ogni caso, ove l'inserimento di dati, informazioni o immagini, possa recare un danno oggettivo al soggetto interessato, egli avrebbe il diritto di opporsi al trattamento.

 

In materia di informazioni personali, un nome od un cognome particolarmente ridicolo potrebbero legittimare una mancanza del consenso al trattamento e alla comunicazione a terzi, da parte dell'interessato.

 

Anche in relazione all'eventuale esposizione di immagini fotografiche nel badge aziendale, riteniamo che una grave ed oggettiva imperfezione fisica o una deformazione del volto, possano essere considerate, se documentati, elementi sufficienti a legittimare il diniego del consenso all'inserimento della foto, e ciò per la loro oggettiva idoneità a procurare un danno al soggetto raffigurato. Il danno provocato sarebbe di natura non patrimoniale e consisterebbe nelle sofferenze psichiche patite dal soggetto raffigurato, derivanti dalla di egli convinzione che la diffusione del proprio ritratto possa suscitare sentimenti di ripugnanza o ilarità negli altri dipendenti o nel pubblico (danno esistenziale). Più complessa risulterebbe essere la prova di un danno di natura patrimoniale, anche se ipoteticamente si potrebbe configurare un danno da perdita di occasioni lavorative (minori chance di carriera a cagione del proprio aspetto o del proprio nome – danno patrimoniale indiretto - ).

 

Ovviamente esistono situazioni di non facile definizione e la cui potenzialità lesiva assume un carattere estremamente soggettivo. Per tale motivo si dovrebbe cercare di considerare come “motivi legittimi” del diniego, elementi che oggettivamente sono idonei a determinare un danno al soggetto interessato.

 

Resta pertanto inteso che l'eventuale opposizione o la richiesta di cancellazione di foto o dati personali del dipendente, debba essere bilanciata adeguatamente con il potere del datore di lavoro, di utilizzare gli stessi dati, ove essi siano evidentemente necessari, o comunque, contribuiscano al buon andamento dell'azienda o rispondano ad esigenze di trasparenza nei rapporti con il pubblico.

 

Qualora il dipendente opponesse alla richiesta di trattamento dei dati, un rifiuto immotivato o pretestuosamente motivato, il datore di lavoro avrebbe il diritto di reiterare la richiesta, esortando il dipendente a specificare le motivazioni legittimanti il rifiuto, e chiedendogli di fornire elementi avvaloranti la legittimità dei motivi del diniego.

 

Dal lato del dipendente, qualora egli ritenesse che i suoi dati vengono trattati in violazione della legge sulla privacy, è prevista, oltre all'ordinaria tutela giudiziale, la possibilità di ricorrere all'Ufficio del Garante. Ciò sarà possibile solo dopo avere avanzato richiesta di modifica o cancellazione dei dati al titolare o al responsabile e sia decorso il termine di 15 giorni, ovvero se è stato opposto alla richiesta un diniego anche parziale.

   

Il mantenimento dei figli naturali riconosciuti (pubblicato su: Il Corriere La Tribuna, Casa Editrice La Tribuna 2006 - overlex – iussit.it – civile.it – leggiweb.it – filodiritto – ergaomnes)

La disciplina degli effetti del riconoscimento dei figli naturali si evince dal combinato disposto degli articoli 250, 258 e 261 del codice civile.

L'articolo 250 al primo comma sancisce che: “ il figlio naturale può essere riconosciuto sia dal padre che dalla madre, anche se uniti in matrimonio con altra persona all'epoca del concepimento. Il riconoscimento può avvenire sia congiuntamente che disgiuntamente ”.

La conditio sine qua non per poter procedere al riconoscimento, è la nascita del figlio al di fuori di un rapporto matrimoniale. Si tratta di un atto di natura non recettizia, caratterizzato dal requisito dell'irrevocabilità. La dottrina considera l'atto di riconoscimento del figlio naturale come atto personalissimo e pertanto non suscettibile di rappresentanza.

Ciò che differenzia il riconoscimento effettuato ex articolo 250 cod. civ. dalla dichiarazione giudiziale di paternità è certamente l'elemento della volontarietà.

Sulla natura dell'atto di riconoscimento del figlio naturale, la dottrina nel corso degli anni ha prospettato diverse soluzioni e teorie; ad oggi la teoria prevalente attribuisce all'atto di riconoscimento la natura di atto di accertamento privato.

Il comma secondo dell'articolo 250 del codice civile, impone come condizione essenziale per il riconoscimento, l'assenso del figlio che ha già compiuto i sedici anni di età, mentre per il figlio di età inferiore è richiesto il consenso dell'altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento (3° comma).

La normativa vigente in materia, al fine di evitare rifiuti del consenso motivati da ragioni strumentali o da sentimenti di vendetta o di natura ricattatoria, ammette la possibilità per il genitore che è si visto opporre da parte dell'altro, il rifiuto al consenso al riconoscimento, di ricorrere al Tribunale per i Minorenni (procedimento di opposizione) al fine di ottenere, nel caso in cui venga accertato che il riconoscimento corrisponde all'interesse del figlio, una sentenza costitutiva che tenga luogo del consenso mancante.

Nel corso del Giudizio, sarà compito del Tribunale valutare in concreto l'interesse del minore, tenendo comunque in dovuta considerazione anche il diritto del genitore, costituzionalmente garantito, ad essere considerato tale.

Il riconoscimento volontario può essere effettuato nell'atto di nascita oppure, successivamente alla nascita, con un'apposita dichiarazione davanti ad un ufficiale dello stato civile o in atto pubblico o in un testamento.

L'atto di riconoscimento è di natura irrevocabile. Esso, ai sensi dell'articolo 256 cod. civ., nel caso in cui sia contenuto in un testamento, comporta il riconoscimento automatico del figlio, a decorrere dal giorno della morte del testatore, anche se il testamento è stato da quest'ultimo revocato.

La legge stabilisce espressamente come conseguenza del riconoscimento, l'assunzione da parte del genitore, di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi.

Tra gli obblighi primari del genitore, merita approfondimento la questione relativa al mantenimento del figlio riconosciuto.

Ai fini della determinazione del quantum dell'assegno di mantenimento non si potrà non tenere conto delle sostanze e dei redditi del genitore obbligato. Per la determinazione dell'assegno di mantenimento a favore del figlio minore, le buone risorse economiche dell'obbligato hanno rilievo non soltanto nel rapporto proporzionale con il contributo dovuto all'altro genitore, ma anche in funzione diretta di un più ampio soddisfacimento delle esigenze del figlio, posto che i bisogni, le abitudini, le legittime aspirazioni di questo e in genere le sue prospettive di vita, non potranno non risentire del livello economico sociale in cui si colloca la figura del genitore (Cass. Civ. Sez. I n. 7644 del 13.07.1995).

L'obbligo al mantenimento per giurisprudenza unanime, decorre dalla nascita del figlio (Cass. Civ. Sez. I n. 8042 del 14.08.1998 et Cass. Civ. Sez. I, n. 6217 del 28.06.1994 et Cass. Civ. Sez. I, n. 2065 del 02.03.1994 et Cass. Civ. Sez. I, n. 2907 del 24.03.1994 et Cass. Civ. Sez. I, n. 791 del 23.01.1993 et Cass. Civ. Sez. I, n. 5619 del 26.06.1987) e non dall'atto del riconoscimento o della domanda giudiziale. Tale obbligo infatti, non avendo esclusivamente natura alimentare, sorge automaticamente per il fatto della filiazione e prescinde dallo stato di bisogno del minore.

Del resto il riconoscimento del figlio naturale comporta l'assunzione di tutti gli obblighi propri della procreazione legittima , ivi compreso quello del mantenimento e ciò a prescindere dalla circostanza che i genitori siano conviventi o dalle vicissitudini dei rapporti personali tra gli stessi. Ne consegue che “nell'ipotesi in cui al mantenimento abbia provveduto, integralmente o comunque al di là delle proprie sostanze, uno soltanto dei genitori, a lui spetta il diritto di agire in regresso, per il recupero della quota del genitore inadempiente, secondo le regole generali del rapporto tra condebitori solidali” (Cass. Civ. Sez. I, n. 15063 del 22.11.2000).

Pertanto il genitore che per primo ha riconosciuto il figlio e che ha provveduto al suo mantenimento in via esclusiva, successivamente all'atto di riconoscimento da parte dell'altro genitore o alla sentenza di accertamento giudiziale di paternità, avrà il diritto di ripetere nei confronti di quest'ultimo (se inadempiente) una quota delle spese sostenute. E ciò per applicazione analogica dell'articolo 1299 cod. civ, il quale prevede il regresso tra condebitori solidali, quando l'obbligazione sia stata adempiuta da uno solo di essi, alla stregua del principio che si trae dall'articolo 148 (richiamato dall'articolo 261 cod. civ. per la filiazione naturale) che, prevedendo l'azione giudiziaria contro il genitore inadempiente, postula il diritto di quello adempiente di agire in regresso nei confronti dell'atro (Cass. Civ. Sez. I, n. 5619 del 26.06.1987).

Si tratterà pertanto di rimborsare le spese sostenute dal genitore nell'interesse del figlio, posto che i doveri del genitore naturale sono gli stessi che le legge impone nel caso di filiazione legittima e, stante l'obbligo a carico del genitore non solo di mantenere ma altresì di educare ed istruire il figlio, dovranno essere altresì rimborsate tutte le somme corrisposte dal genitore adempiente, per l'educazione e l'istruzione del minore (vedasi Cass. Civ. Sez I, n. 2065 del 02.03.1994).

Sono assai frequenti nella prassi giudiziaria, contenziosi instaurati dinnanzi al Tribunale Ordinario (e non dei Minori), dal genitore che per primo ha provveduto al riconoscimento e al mantenimento del figlio, finalizzati ad ottenere dall'altro genitore naturale, la corresponsione di una somma periodica a titolo di mantenimento del figlio e una somma per il rimborso della quota parte delle spese sostenute dal genitore dalla nascita del figlio, sino alla sentenza di condanna.

Negli ultimi tempi la Giurisprudenza si è spinta sino a riconoscere il diritto del figlio o del genitore nell'interesse del primo, ad agire per la richiesta di risarcimento del danno esistenziale causato al figlio in conseguenza del comportamento del genitore inadempiente agli obblighi di assistenza morale e materiale, per lesione di diritti fondamentali della persona umana inerenti alla qualità di figlio minore. “Poiché l'articolo 2043 civ. Civ. correlato agli articoli 2 ss. della Costituzione, va necessariamente esteso fino a ricomprendere non solo il risarcimento dei danni in senso stretto patrimoniali, ma di tutti i danni che almeno potenzialmente ostacolano le attività realizzatrici della persona umana, la lesione dei diritti di rilevanza costituzionale va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé della lesione, indipendentemente dalle eventuali ricadute patrimoniali che la stessa possa comportare”. (Cass. Civ. Sez. I, n. 7713 del 07.06.2000). Il danno esistenziale sarà rappresentato dal pregiudizio subito dal minore nella realizzazione della sua personalità, a causa dei ridotti mezzi di sussistenza o a causa dell'abbandono morale e/o materiale da parte del genitore inadempiente.

Nel caso di mancata somministrazione dei mezzi di sussistenza da parte del genitore, quest'ultimo incorrerà altresì nel reato previsto dall'articolo 570 del codice penale, per violazione degli obblighi di assistenza familiare. In questo caso neanche la disagiata condizione economica dell'obbligato alla prestazione dei mezzi di sussistenza, costituirà un'esimente per potersi sottrarre al dovere di corresponsione dei mezzi o del pagamento dell'assegno all'avente diritto. Ciò ovviamente a condizione che il soggetto non si trovi in condizioni di assoluta indigenza.

Tutela della privacy e portfolio alunni nella scuola  (pubblicato su: overlex – la pagina giuridica)

  Il D.lgs. 19 aprile 2004 n. 59 in materia di scuola primaria e secondaria di primo grado, ha introdotto la figura del c.d portfolio delle competenze individuali.

Si tratta di un documento che ogni scuola pubblica o privata deve redigere in riferimento ai singoli alunni, al fine di raccogliere informazioni relative agli stessi. Il Portfolio è un documento di valutazione ed orientamento che attesta i processi formativi degli alunni e ne accompagna il percorso scolastico.

A seguito di numerose segnalazioni e reclami da parte di genitori, per possibile violazione della privacy in merito al trattamento dei dati personali dei figli da parte degli istituti scolastici, è intervenuto il Garante per la Protezione dei dati personali il quale, nel provvedimento del 26.07.2005 (portfolio: garanzie nei processi informativi degli alunni), ha stabilito alcune linee guida e principi informatori ai quali attenersi per la redazione del portfolio.

Il punto nodale della questione va individuato nella tipologia di dati personali che sono trattati nel portfolio. Fino ad oggi non esisteva un modello standard di portfolio imposto o suggerito dal Ministero dell'Istruzione. Ciò rappresentava un evidente limite, in considerazione del fatto che in assenza di disposizioni ed indicazioni specifiche da parte del Garante della Privacy era compito dei singoli istituti scolastici provvedere alla predisposizione dei modelli standard di portfolio da utilizzare all'interno della scuola, i quali rischiavano di divergere notevolmente da un istituto all'altro.

Il Garante ha individuato nel singolo Istituto scolastico frequentato dallo studente, il titolare del trattamento dei dati inseriti nel portfolio, vale a dire il soggetto a cui compete ogni decisione in ordine alle finalità e modalità di trattamento e agli strumenti utilizzati.


L'Autorità Garante ha identificato 4 principi informatori a cui debbono necessariamente attenersi gli istituti scolastici nella redazione del portfolio:

1) Principio della finalità : i dati devono essere trattati esclusivamente per il raggiungimento delle finalità indicate nella legislazione di riforma del sistema scolastico o per valutare l'apprendimento ed il comportamento degli alunni, ma deve ogni caso essere evitato qualsiasi trattamento (raccolta, acquisizione, registrazione) diretto a definire un profilo psicologico degli alunni.

2) Principio della necessità : si tratta del principio sancito dall'articolo 3 del Codice della Privacy, il quale impone di ridurre al minimo l'utilizzo dei dati personali e identificativi, in modo da escluderne il trattamento quando le finalità perseguite nei singoli casi possano essere realizzate mediante, rispettivamente, dati anonimi od opportune modalità che permettano di identificare l'interessato solo in caso di necessità.

3) Principio di proporzionalità : i dati trattati non possono in nessun caso essere eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o trattati.

4) Principio di indispensabilità : è senza dubbio il principio più importante e ad avviso dello scrivente quello più delicato, in quanto diretto a limitare la raccolta ed il trattamento dei dati esclusivamente alle informazioni realmente indispensabili per la valutazione del processo formativo dello studente. Il principio della indispensabilità appare ictu oculi strettamente connesso a quello della necessità ed impone un'attenta valutazione da parte del singolo istituto scolastico circa le informazioni da acquisire e trattare, al fine di evitare, quanto più possibile, l'inserimento ed il trattamento di dati di natura sensibile, idonei a rilevare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose e lo stato di salute dell'alunno o di quei dati per la raccolta dei quali l'ordinamento impone particolari cautele (es: stato di affidamento o di adozione Legge 184/1983).


Il Garante per la Protezione dei Dati Personali nel provvedimento del 26.07.2005 ha inoltre evidenziato la necessità di informare l'esercente la potestà sull'alunno circa il trattamento dei dati ed in particolare circa le modalità e finalità del trattamento, la natura obbligatoria o facoltativa del conferimento dei dati, le conseguenze di un eventuale rifiuto nel fornirli e gli estremi identificativi del titolare del trattamento (Istituto scolastico).

In caso di trattamento dei dati sensibili così come definiti dall'articolo 4 lettera d) del codice della Privacy, il Garante ha regolamentato diversamente il trattamento degli stessi, a seconda che dette informazioni siano acquisite da un istituto scolastico di natura pubblica o da uno di natura privata.

Per quanto concerne gli istituti scolastici privati è necessario, per poter trattare i dati sensibili, il consenso specifico, preventivo e scritto da parte del soggetto esercente la potestà sull'alunno minore. Il Garante ha inoltre ribadito l'importanza nell'ambito dell'acquisizione dei dati sensibili, del rispetto delle prescrizioni contenute nel Codice della Privacy (art. 26) e nelle autorizzazioni generali al trattamento dei dati sensibili. (autorizzazioni n. 2 e 3 del 2004).

In particolare l'Autorizzazione n. 3 del 2004 (G.U. 190 del 14.08.2004), autorizza espressamente gli istituti scolastici al trattamento dei dati sensibili, limitatamente all'acquisizione di quelle informazioni idonee a rivelare le convinzioni religiose. L'acquisizione di tali notizie dovrà essere esclusivamente finalizzata a valutare l'eventuale inserimento dell'insegnamento della religione all'interno dei percorsi formativi e ciò sulla base dell'appartenenza degli alunni ad una particolare confessione religiosa.

Il consenso scritto, specifico e preventivo non è invece richiesto per il trattamento dei dati sensibili relativi ad alunni frequentanti istituzioni scolastiche pubbliche; tale situazione potrebbe, a parere di chi scrive, dar luogo a problemi di natura costituzionale, in ordine alla disparità di trattamento tra alunni di scuole private e di scuole pubbliche.

Il Garante ha recentemente manifestato la propria preoccupazione riguardo alla circostanza che ad oggi numerose amministrazioni pubbliche non hanno ancora provveduto ad introdurre le idonee garanzie previste per il trattamento dei dati sensibili. L'Autorità garante ha esortato le pubbliche amministrazioni ad emanare i necessari regolamenti disciplinanti le modalità e le finalità del trattamento dei dati sensibili (rilevante interesse pubblico). Ove tali regolamenti non fossero emanati entro il 31.12.2005, la prosecuzione nel trattamento dei dati sensibili diverrebbe un illecito.

Gli schemi dei regolamenti emanati dalle pubbliche amministrazioni dovranno poi essere sottoposti all'esame del Garante per l'espressione del parere, cui le amministrazioni dovranno poi conformarsi (Il Garante ha messo a disposizione delle Pubbliche Amministrazioni, un apposito modello di riferimento per redigere gli schemi).

Nella redazione del portfolio l'istituto scolastico (pubblico o privato) dovrà sempre indicare in un'apposita informativa, i soggetti incaricati del trattamento, vale a dire tutte le persone fisiche autorizzate a compiere operazioni di trattamento dal titolare o dal responsabile. Sarà inoltre necessario rispettare tutte le norme previste dal Codice della Privacy in materia di sicurezza dei dati.

Nell'ipotesi in cui il trattamento dei dati avvenisse attraverso l'ausilio di strumenti informatici sono richieste le seguenti misure minime (art. 34 Codice della Privacy):

a) autenticazione informatica;

b) adozione di procedure di gestione delle credenziali di autenticazione;

c) utilizzazione di un sistema di autorizzazione;

d) aggiornamento periodico dell'individuazione dell'ambito del trattamento consentito ai singoli incaricati e addetti alla gestione o alla manutenzione degli strumenti elettronici;

e) protezione degli strumenti elettronici e dei dati rispetto a trattamenti illeciti degli stessi, ad accessi non consentiti e a determinati programmi informatici;

f) adozione di procedure per la custodia di copie di sicurezza, il ripristino della disponibilità dei dati e dei sistemi;

g) adozione di tecniche di cifratura o di codici identificativi per determinati trattamenti di dati idonei a rivelare lo stato di salute.


Nel caso di trattamenti effettuati senza l'ausilio di strumenti elettronici, le misure minime richieste dalla normativa in materia di privacy sono principalmente:

a) aggiornamento periodico dell'individuazione dell'ambito del trattamento consentito ai singoli incaricati;

b) previsione di procedure per un'idonea custodia di atti e documenti affidati agli incaricati per lo svolgimento dei relativi compiti;

c) previsione di procedure per la conservazione di determinati atti in archivi ad accesso selezionato e disciplina delle modalità di accesso finalizzata all'identificazione degli incaricati.

Il Garante ha rilevato la necessità che venga garantita a tutti gli interessati la possibilità di esercitare i diritti individuati dall'articolo 7 del codice della privacy .

In primis, l'interessato ha diritto di ottenere l'indicazione:

a) dell'origine dei dati;

b) delle finalità e modalità del trattamento;

c) della logica applicata in caso di trattamento effettuato con l'ausilio di strumenti elettronici;

d) degli estremi identificativi del titolare e dei responsabili;

e) dei soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza.

L'interessato ha altresì diritto di richiedere ed ottenere l'aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l'integrazione dei dati, la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati.

L'esercente la potestà sull'alunno minore ha inoltre diritto di opporsi, in tutto o in parte per motivi legittimi al trattamento dei dati personali, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta.

Tutti i dati trattati dagli istituti scolastici devono essere conservati esclusivamente per brevi periodi preventivamente individuati, in modo tale che tutte le notizie sugli alunni siano custodite al fine di agevolare l'identificazione degli stessi, per un periodo di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti e successivamente trattati.

Il Garante ha inoltre confermato quanto già indicato negli allegati B) e C) del D.lgs. 59/2004, disponendo che, il Portfolio debba essere rilasciato all'alunno alla fine del corso di studi, affinché lo stesso lo consegni al nuovo istituto scolastico.

Avv. Matteo Santini


Normativa di riferimento

D.lg 30 giugno 2003 n. 196

D.lg 19 aprile 2004 n. 59

Provvedimento Garante per la protezione dei dati personali del 26 luglio 2005 (G.U. 08 agosto 2005 n. 183)

Autorizzazione Garante per la protezione dei dati personali n. 3 del 30 giugno 2004 (G.U. 14 agosto 2004 n. 190)

Autorizzazione Garante per la protezione dei dati personali n. 2 del 30 giugno 2004 (G.U. 14 agosto 2004 n. 190)

Legge 4 maggio 1983 n. 184

Separazione tra coniugi: aspetti pratici  (pubblicato su: overlex – La Tribuna Corriere – Casa Editrice La Tribuna 2006 – Studium Fori)

 

Ai sensi dell'articolo 150 del codice civile come modificato dall'articolo 32 della Legge del 19.05.1975 n. 151 la separazione tra i coniugi può essere consensuale o giudiziale.

Separazione consensuale

Optare per una separazione consensuale è indubbiamente la strada più veloce ed economica per porre fine al proprio rapporto matrimoniale.

Si tratta di un accordo tra i coniugi che viene manifestato in un apposito atto (ricorso) davanti al Tribunale competente.

L'accordo dei coniugi viene consacrato in un ricorso, all'interno del quale debbono essere indicate le condizioni alle quali i coniugi intendono separarsi. Ci riferiamo in particolare all'accordo sull'assegnazione della casa coniugale, sull'affidamento dei figli, sul mantenimento e sulle modalità di frequentazione degli stessi, sulla somma periodica da corrispondere eventualmente al coniuge più debole.

Il ricorso è sottoscritto da entrambi i coniugi e deve essere depositato presso il Tribunale competente per l'iscrizione al ruolo. I coniugi possono procedere nelle pratiche per la separazione consensuale anche senza il supporto e l'assistenza dell'avvocato.

Appena depositato il ricorso, viene predisposto e costituito il fascicolo d'ufficio ed il presidente del Tribunale fissa con decreto l'udienza alla quale i coniugi devono comparire personalmente (di solito circa tre/quattro mesi dopo la presentazione del ricorso).

Nel corso di tale udienza dovrà essere esperito il tentativo di conciliazione dei coniugi, la cui riuscita è un evento estremamente raro . Nella suddetta ipotesi verrebbe redatto verbale di conciliazione in cui sarebbe riportata tale volontà.

L'ipotesi più frequente invece è quella in cui, le parti rinnovano la loro volontà di separarsi alle condizioni di cui al ricorso.

Il Tribunale effettua un controllo di conformità tra quanto richiesto nel ricorso e la normativa vigente, ponendo particolare attenzione e cura all'aspetto dell'affidamento e del mantenimento della prole. Si tratta della c.d. omologazione, ovvero il controllo sulla conformità e compatibilità degli accordi di separazione alla legge; è un procedimento che si instaura d'ufficio e segna la fase ultima della separazione consensuale, conferendo piena efficacia agli accordi di separazione. Quando l'accordo dei coniugi relativamente all'affidamento e al mantenimento dei figli è in contrasto con l'interesse di questi, il giudice riconvoca i coniugi indicando ad essi le modificazioni da adottare nell'interesse dei figli e, in caso di inidonea soluzione, può rifiutare allo stato l'omologazione.

Il tempo medio per ottenere una separazione consensuale (cioè il tempo intercorrente tra il deposito del ricorso e l'omologazione del Tribunale) è di circa 3 - 7 mesi, a fronte di un periodo molto più lungo per addivenire ad una separazione di tipo giudiziale.

Inoltre, nel caso di separazione giudiziale i tempi possono essere ulteriormente allungati da un eventuale appello o ricorso in cassazione.

Trascorsi tre anni dal giorno dell'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del Tribunale è possibile avviare le procedure per ottenere il divorzio.

Anche in questo caso la scelta del divorzio congiunto, abbrevia notevolmente i tempi della procedura.

Separazione giudiziale

La separazione di tipo giudiziale può essere chiesta, quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all'educazione della prole.

A differenza della separazione consensuale, quella giudiziale implica l'instaurarsi di una vera e propria lite giudiziale.

Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e solo se ciò sia richiesto da uno dei coniugi o da entrambi, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.

Peculiarità della separazione giudiziale, è pertanto la possibilità dell'addebito della separazione ad uno dei coniugi.

E' infatti possibile che uno dei coniugi chieda espressamente al Tribunale di dichiarare l'altro coniuge come unico responsabile del fallimento coniugale. Diversi sono i comportamenti ed i fatti che possono portare all'addebito di una separazione. Prescindendo da evidenti ipotesi di comportamenti contrari ai doveri matrimoniali, come violenze domestiche, commissione di reati da parte di un coniuge nei confronti dell'altro, vi sono altri comportamenti che pur non trovando espresso riferimento in supporti normativi, vengono valutati dai Tribunali per l'addebito della separazione; tra questi ricordiamo le vessazioni psicologiche, il rifiuto nell'esercitare l'atto sessuale, l'estrema gelosia, l'atteggiamento del coniuge più facoltoso che fa mancare all'altro i mezzi di sostentamento, ecc.

Come affermato dalla Giurisprudenza della Corte di Cassazione, la nuova disciplina della separazione dei coniugi, introdotta con la riforma del diritto di famiglia di cui alla legge 19 maggio 1975 n. 151, ha disancorato l'addebitabilità della separazione stessa da ipotesi tipiche e tassative di colpa ed ha ampliato il campo di indagine, per la ricerca delle responsabilità della rottura del consorzio coniugale, con riferimento all'intera area dei doveri nascenti dal matrimonio. Pertanto, il giudice del merito, richiesto di dichiarare a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, ancorché accerti a carico di uno di essi un comportamento di per se idoneo a costituire causa dell'impossibilità di prosecuzione della convivenza, non può esimersi, indipendentemente dalla proposizione di istanze di mantenimento, dal prendere in esame globalmente e comparativamente i comportamenti di ciascuno dei due coniugi, al fine di individuare quali possano trovare giustificazione in fatti od atti dell'altro coniuge, e quali, invece, privi di tale giustificazione, vadano ascritti a titolo di responsabilità per l'indicata frattura.

Affidamento dei figli

All'esito del giudizio di separazione giudiziale, il giudice dichiara inoltre a quale dei coniugi sono affidati i figli. In particolare il provvedimento del Giudice stabilisce il quantum e le modalità con cui il coniuge non affidatario deve contribuire al mantenimento, all'istruzione e all'educazione dei figli.

Il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l'esercizio esclusivo della potestà su di essi, ma le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha comunque il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può sempre ricorrere al giudice, quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.

Il Giudice nel provvedimento che definisce il giudizio, disporrà anche in relazione all'assegnazione dell'abitazione familiare che spetterà di preferenza, al coniuge affidatario dei figli.

Mantenimento del coniuge piu' debole

In merito al mantenimento del coniuge più debole, l'art. 156 del codice civile come sostituito dalla legge 151/1975 stabilisce che: “Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.

Il presupposto fondamentale per il diritto al mantenimento è pertanto la non addebitabilità della separazione. Il coniuge al quale venie addebitato il fallimento del rapporto coniugale, non ha diritto ad ottenere dal coniuge più forte economicamente quelle somme che gli consentirebbero di mantenere lo stesso tenore di vita che conduceva in costanza di matrimonio.

Il venire meno del diritto al mantenimento non pregiudica comunque l'eventuale diritto agli alimenti a cui ha sempre diritto il coniuge che versa in stato di bisogno, così come sancito dagli articoli 433 e seguenti del codice civile.

L'entità della somministrazione del mantenimento è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi del coniuge obbligato.

Come stabilito dalla corte di Cassazione in sentenza 1981, n. 6396: “ L'entità dell'assegno di mantenimento in favore del coniuge cui non sia addebitabile la separazione va determinata non soltanto in relazione ai redditi del coniuge obbligato, ma a tutte le sue sostanze, compresi i cespiti patrimoniali improduttivi di reddito, i quali, servono di riferimento per determinare il contenuto dell'obbligo di ciascun coniuge di contribuire ai bisogni della famiglia.”

Per i coniugi separati o in corso di separazione la legge lascia comunque sempre aperta l'ipotesi riconciliativa. Infatti essi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l'intervento del giudice, con un'espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.

 

 

Avvocati e utilizzo di internet e divulgazione di informazioni sull'esercizio della professione forense mediante siti web  (pubblicato su: overlex – La Pagina Giuridica – civile.it – diritto.it)\

 

L'articolo 17 del codice deontologico forense così come approvato nella seduta del C.N.F. del 26.10.2002, disciplina espressamente le modalità di divulgazione delle informazioni sulla professione, consentendo all'avvocato di fornire notizie sulla propria attività professionale nel rispetto dei canoni della correttezza, della verità e del decoro della professione (1).

Il suddetto articolo, mentre disciplina i parametri da rispettare per la realizzazione dei siti web, nulla stabilisce in ordine all'eventuale concorrenza che ne può scaturire tra gli studi legali.

Tra i mezzi di informazione consentiti, il codice annovera i siti web e le reti telematiche (internet) previa segnalazione al Consiglio dell'Ordine di appartenenza e nei limiti dell'informazione.

E' naturale che l'informazione fornita dalla pubblicazione di un sito web di uno studio legale si traduca spesso in “informazione circa l'esistenza del singolo studio legale, dell'attività esercitata, dell'ubicazione e delle competenze specifiche dello stesso”.

Come organismo professionale, lo studio legale informa i terzi circa la propria esistenza per il precipuo fine di ricevere contatti da parte di potenziali clienti interessati all'attività di assistenza e consulenza dello studio.

E' proprio per questo che vi sono pochi siti web che non contengano all'interno degli stessi i dati relativi all'ubicazione, alle utenze telefoniche dello studio, alle aree di attività, alle eventuali pubblicazioni, ai titoli accademici dei singoli membri e ogni altra informazione diretta a far acquistare prestigio e affidabilità alla struttura.

Esistono comunque molti studi legali che inseriscono all'interno dei siti web, materiale di tipo giuridico messo in rete a disposizione degli utenti. Ci riferiamo ad articoli, sentenze, formulari e ogni altro dato diretto a garantire ed agevolare lo scambio di informazioni tra professionisti del diritto e la conoscenza di tali notizie da parte dei “visitatori”.

In realtà la problematica dovrebbe essere affrontata non solo sul piano dei requisiti e dei parametri da rispettare nella realizzazione del sito (requisiti dettagliatamente specificati all'art. 17 comma 2 lett. a et b del Codice Forense) ma soprattutto in riferimento all'utilizzo della rete (internet) per la promozione del sito web.

Una volta ideato e realizzato un sito web, esso viene registrato e pubblicato nella rete globale.

A questo punto si tratta di capire il perché alcuni siti web vengano visualizzati tra i primi posti all'esito dei risultati delle ricerche eseguite dagli utenti con il sistema delle “parole chiave”, mentre altri appaiano in coda.

Esistono centinaia se non migliaia di siti web di studi legali eppure quando l'utente all'interno dei motori di ricerca ( google, altavista , ecc.) digita parole chiave quali “avvocato”, “studio legale”, alcuni siti web appaiono ai primi posti, mentre altri sono visualizzati solo nelle pagine seguenti.

Qual è quindi il criterio per “primeggiare in questa classifica”? Sicuramente il posizionamento del sito web non è puramente casuale. In realtà, una volta registrato il sito per poter apparire in testa ai risultati delle ricerche degli utenti, è necessario effettuare un'attività di posizionamento dello stesso. Questo tipo di attività viene esercitata anche per mezzo di aziende specializzate nel settore che, per conto dei singoli studi legali, si occupano e si impegnano affinché lo studio legale possa avere la maggiore visibilità possibile.

Ciò avviene sostanzialmente attraverso due strade. La prima è quella della registrazione delle parole chiave nei vari motori di ricerca. Il soggetto interessato o quello incaricato del posizionamento del sito, svolge un accurato ed attento lavoro di monitoraggio dei siti web e di inserimento di quante più possibili parole chiave connesse ad attività dello studio, all'interno dei motori di ricerca.

Ciò significa, ad esempio che uno studio specializzato in diritto tributario inserirà qualora intenda apparire in cima alla “classifica” nei motori di ricerca, parole chiavi quali “tributarista” “studio tributario” “diritto tributario”, auspicando che l'utente nella ricerca di uno studio specializzato in diritto tributario, digiti proprio quelle parole chiave collegate al sito web del singolo studio.

E' normale che le parole chiave connesse al sito web di uno Studio Legale siano spesso le stesse per la stragrande maggioranza degli Studi (es: avvocato, studio legale, consulenza ecc.); allora l'utente, impegnato nella ricerca di uno Studio Legale, digitando come parola chiave ad esempio il termine “avvocato”, si vedrà apparire tra i risultati della ricerca una serie innumerevole di siti web di studi legali. Si tratta di tutti quegli studi che hanno registrato quella determinata parola chiave come connessa al proprio sito web.

Questa attività ovviamente ha un costo (in termini di tempo e/o di denaro) e più sono le parole chiave registrate più alto è il costo da sostenere.

Un'altra strada per ottenere il posizionamento di un sito è il cosiddetto “ Pay per click ”. In tal caso il sito web viene visualizzato all'interno dei motori di ricerca che si occupano della promozione e, il proprietario del sito web corrisponde al gestore del motore di ricerca una determinata somma per ogni visita ricevuta (Click ricevuto).

Purtroppo l'art. 17 del codice deontologico forense disciplina esclusivamente le limitazioni nell'utilizzo dei siti web nella rete globale solo nella parte in cui vieta l'utilizzo di internet per l'offerta di consulenza gratuita.

Sarebbe invece opportuno sapere se ed entro quali limiti è lecito l'utilizzo della rete per rendere noto a terzi il proprio sito web.

A parere dello scrivente sgombrando il campo da schermature e definizioni di difficile interpretazione, informare i terzi circa l'esistenza di uno studio legale può essere considerata un forma, seppur velata e magari solo informativa, di pubblicità dello stesso.

Si pubblica on line il proprio sito web principalmente per renderlo noto a terzi e, con riferimento ad un'attività di tipo professionale, il fine di rendere nota l'esistenza di uno studio legale a terzi è anche quella di “augurarsi” che tali soggetti contattino lo studio per la richiesta di assistenza o consulenza; altrimenti non si spiegherebbe il perché tanti studi legali, ai fini di apparire nei primi posti nella classifica impegnino cospicue energie.

Il crescente utilizzo della rete da parte degli studi legali, per fornire informazioni sulla propria attività, impone che una maggiore attenzione debba essere rivolta alle modalità di utilizzo di internet e non solo ai parametri da rispettate per la realizzazione del sito stesso.

Ritengo personalmente che la materia dell'uso di internet da parte degli avvocati, debba essere disciplinata in modo più dettagliato ed articolato, limitandosi l'attuale codice deontologico (articolo 17, comma 1 lettera b), a vietare l'utilizzo di internet solo “ per offerta di servizi e consulenze gratuite, in proprio o su siti di terzi ”.

Anche la Giurisprudenza del C.N.F., vista la novità della materia, non offre particolari spunti di riflessione o di riferimento. L'unica decisione significativa in materia è rappresentata dal provvedimento del Cons. Naz. Forense 18-06-2002, n. 82 il quale ha sancito che: “ E' legittima la divulgazione in un articolo di stampa (che trattava di studi multimediali) del sito relativo ad uno studio legale in cui vengano illustrate le modalità di utilizzo del collegamento e si faccia comunque riferimento ad un eventuale incarico fiduciario che potrà essere affidato al professionista titolare; per contro pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante l'avvocato che nel suo sito enfatizzi le attività dello studio con un messaggio autocelebrativo e autocompiaciuto volto all'accaparramento di clientela. (Nella specie è stata confermata la sanzione dell'avvertimento agli avvocati nel cui sito venivano rilevate, tra le altre, tali affermazioni:"siete entrati in un vero e proprio studio legale", "con una differenza rispetto a qualsiasi studio della vostra città ").

Da una attenta lettura ed analisi dell'articolo 17 del codice deontologico forense e dal tenore letterale dello stesso si ricava che, la promozione ed il posizionamento dei siti web, non rappresenta di per se una forma di pubblicità vietata e che ad oggi, l'unico limite esplicito imposto all'avvocato in ordine all'utilizzo del sito web sia quello relativo al divieto di offerta di consulenza gratuita.

La rete globale, se correttamente utilizzata, può attualmente rappresentare un importante veicolo informativo e conoscitivo in campo giuridico (Vedasi ad esempio il proliferare in questi ultimi tempi dei vari portali giuridici, che agevolano la conoscenza da parte degli avvocati, di normativa, giurisprudenza e dottrina e che rappresentano un importantissimo mezzo per reperire materiale giuridico), purché siano disciplinati in modo dettagliato ed esauriente le modalità di utilizzo della stessa e le relative limitazioni.

E' pertanto assolutamente indispensabile, un intervento del C.N.F. e ciò al fine di regolamentare in positivo la materia in questione e di fornire chiare indicazioni agli studi legali su come gestire il proprio sito web all'interno degli spazi internet.

Per completezza informativa, dobbiamo sottolineare che esistono diversi siti web di studi legali che, hanno finalità puramente ed esclusivamente informative e che sono visualizzabili solo digitando nella barra, l'indirizzo esatto del sito web.

Avv. Matteo Santini


L’affidamento congiunto

La modifica dell’articolo 155 del codice civile, a seguito dell’entrata in vigore della
Legge 8 Febbraio 2006 n. 54, ha introdotto come principio cardine, in materia di
affidamento dei minori a seguito di separazione personale dei coniugi, il cosiddetto
“affidamento congiunto”.

La norma si riferisce espressamente alla valutazione prioritaria circa la possibilità di un
affidamento condiviso, che il giudice deve effettuare al momento dell’emissione dei
provvedimenti di cui al secondo comma dell’articolo 155 c.c.

Le lettera della legge circa la “valutazione prioritaria”, impone come antecedente
necessario quello di determinare quali siano le situazione ostative ad un provvedimento
di affidamento congiunto. In assenza di un’espressa codificazione legislativa, se non il
generico riferimento “all’interesse morale e materiale della prole” il criterio guida sarà
certamente quello della maggiore tutela possibile del minore.

A differenza del vecchio testo dell’articolo 155 c.c. dove nessun sistema di preferenza
era indicato dal legislatore in ordine all’emanazione del provvedimento di affidamento,
il nuovo dettato normativo prevede un evidente criterio di scelta verso l’affidamento ad
entrambi i genitori.

Peraltro sotto la vigenza del vecchio testo dell’articolo 155, pur non essendo previsto
alcun criterio di priorità circa l’affidamento, l’ipotesi più diffusa era quella
dell’affidamento esclusivo alla madre. Ciò non escludeva che in linea di principio il
Giudice potesse far ricorso all’istituto dell’affido condiviso anche se nella prassi
l’affidamento esclusivo era la soluzione maggiormente adottata.

Prima della riforma, l’istituto dell’affidamento congiunto pur non essendo previsto dalla
normativa vigente in materia di separazione personale, era ammesso espressamente
dall’articolo 6 della legge sul divorzio (898/1970) e la giurisprudenza di legittimità era
già in passato intervenuta ammettendo l’applicazione analogica del suddetto articolo
anche alle ipotesi di separazione personale (Cass. Civ. n. 2210 del 28.02.2000 et Cass.
Civ. n. 127775 del 13.12.1995).

Sicuramente sia il nuovo che il vecchio testo della legge hanno e avevano come punto di
riferimento preminente l’interesse morale e materiale della prole; ma ad essere mutato è
l’orientamento del legislatore su cosa in realtà tuteli in misura maggiore l’interesse della
prole. Se in passato si riteneva che non vi fosse un interesse preminente a che i figli
fossero affidati ad entrambi i genitori, la nuova disciplina ha individuato come interesse
primario della prole, quello della continuità nei rapporti con entrambi i genitori,
preservando per quanto possibile lo stesso equilibrio di frequentazione tra entrambi i
genitori.

Si faccia bene attenzione nel non intendere la norma sull’affidamento congiunto come
una disposizione a tutela e salvaguardia dell’interesse, se pur affettivo, dei genitori,
bensì ad interpretarla come uno spostamento, avvenuto a seguito di accesi dibattiti

giurisprudenziali e dottrinali, dell’interesse dei figli, verso una soluzione di affidamento
congiunto.

In linea teorica, se prima della riforma non esisteva di per se un genitore più idoneo ad
ottenere l’affidamento di un figlio (anche se nella stragrande maggioranza dei casi
finiva per essere la madre), a seguito della legge n. 54/2006 esiste una presunzione circa
l’idoneità di entrambi i genitori a proseguire nei propri compiti di genitore “a tempo
pieno”.

Con l’introduzione del nuovo testo dell’articolo 155 c.c. sarà l’organo giudicante, di
volta in volta, a valutare se esistono elementi o situazioni specifiche che ostano
all’affidamento congiunto, tenendo presenti una serie di elementi prognostici che sono
già stati in passato indicati dalla giurisprudenza di legittimità, quali la capacità di
relazione affettiva, di disponibilità ad un assiduo rapporto, alle consuetudini di vita e
all’ambiente che è in grado di offrire al minore.

Le modalità attraverso le quali può esplicarsi l’affidamento congiunto sono
sostanzialmente due e cioè: 1) l’affidamento a residenza alternata, caratterizzato dal
fatto che il minore alterna periodi di convivenza presso l’uno e l’altro genitore o sono
gli stessi genitori ad alternarsi nella casa dove i figli abitano stabilmente e 2)
l’affidamento a residenza privilegiata, il quale prevede che il minore risieda
prevalentemente presso l’abitazione del coniuge ritenuto più idoneo.

Nella scelta verrà sicuramente preso in considerazione l’interesse del minore a
continuare a vivere nell’ambiente e nell’abitazione dove egli ha vissuto prima del
dissolversi dell’unione affettiva dei genitori e questo ovviamente per ridurre al minimo i
traumi derivanti dalla separazione.

La nuova disciplina pur non indicando le linee guida relative all’applicazione concreta
dell’istituto dell’affidamento congiunto, esprime in pieno un principio di fondamentale
importanza: quello della “bigenitorialità” e del relativo esercizio congiunto della
potestà. La potestà spetta ad entrambi i genitori mentre in passato spettava
esclusivamente al genitore al quale erano affidati i figli.

Il diritto / dovere di mantenere, istruire, educare la prole spetta ad entrambi i genitori i
quali possono adottare liberamente le decisioni ritenute più opportune per il minore,
durante il periodo in cui quest’ultimo coabita con il genitore. Ciò significa che nel
periodo in cui il minore risiede presso un genitore, sarà quest’ultimo ad adottare tutte le
decisioni di “ordinaria amministrazione”, mentre per tutte quelle decisioni di maggiore
importanza sarà necessario l’intervento di entrambi i genitori. Questo tipo di
affidamento presuppone ovviamente che tra i genitori esista uno spirito collaborativo ed
un senso di responsabilità che troppo spesso risulta essere carente nella pratica. In effetti
una persistente e ostinata situazione di conflittualità tra i genitori non consentirebbe di
adottare le più semplici e quotidiane decisioni nell’interesse nel figlio o ancor peggio
quelle di maggior importanza, con il rischio di pregiudicare oltremodo la sfera psichica
del figlio e di paralizzare l’attività dei Tribunali, attraverso ripetuti ricorsi al Giudice,
diretti a dirimere ogni minimo conflitto e controversia dei genitori.

Ritengo che la lacuna normativa circa le modalità applicative dell’affidamento
congiunto sia stata volutamente prevista dal legislatore al fine di consentire una

maggiore elasticità da parte delle Corti di merito, in modo tale da adattare i singoli
provvedimenti di affidamento congiunto ai casi specifici.

Solo l’esperienza applicativa potrà determinare la nascita di principi guida di natura
giurisprudenziale e consentire un giudizio globale circa il successo o meno dell’istituto
dell’affidamento congiunto.

Anche se la normativa pone come principio di scelta quello dell’affidamento condiviso,
viene altresì contemplata l’ipotesi dell’affidamento esclusivo ad uno solo dei genitori,
qualora il giudice ritenga che “l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del
minore”.

Dalla lettura della norma risulta evidente che un eventuale provvedimento di affido
esclusivo dovrebbe essere opportunamente motivato e dovrebbe soprattutto costituire
l’eccezione alla regola dell’affidamento condiviso.
Il nocciolo della questione è quello di comprendere quali siano gli elementi contrari
all’interesse del minore. Anche qui, in assenza di una codificazione legislativa, sarà il
giudice, a valutare caso per caso ciò che è contrario agli interessi del minore.

Ci si chiede ad esempio se l’estrema conflittualità tra i genitori possa configurare un
elemento contrario all’interesse del figlio.
Credo che ove la litigiosità dei genitori possa assurgere ad elemento ostativo ad un
affidamento congiunto, il nuovo testo dell’articolo 155 c.c. sarebbe di fatto svuotato di
ogni significato. Sarebbe infatti sufficiente per il singolo genitore addurre un’esasperata
situazione di conflittualità con l’altro genitore al fine di evitare l’affidamento congiunto
e indirizzare il giudice verso un provvedimento di affidamento esclusivo.

Pertanto alla luce della nuova normativa è da ritenersi superato il principio sulla base
del quale l'accordo dei coniugi sarebbe presupposto imprescindibile per l’affidamento
congiunto della prole. Così disponeva la Corte di Appello di Perugia in data 18-01-
1992: “Atteso che l'accordo dei coniugi è presupposto imprescindibile per l’affidamento
congiunto della prole, questo va revocato nel caso in cui, ancorchè concordato ed
omologato in sede di separazione, sopravvenga tra le parti un aperto, grave dissenso,
caratterizzato da aperta e accesa conflittualità e comportante serio pericolo di non
lieve pregiudizio per la prole stessa ….”.

Sull’elemento della conflittualità tra i genitori, nel corso degli anni abbiamo assistito ad
un vivace scontro dottrinale e giurisprudenziale e al formarsi di due contrapposte
visioni: la prima che vedeva nella conflittualità esasperata dei genitori un elemento
ostativo all’affidamento condiviso (Tribunale Varese, 11-07-2005); la seconda che
considerava comunque l’affidamento condiviso e l'esercizio congiunto della potestà
genitoriale come rispondente all'interesse primario della prole, garantendo la
sopravvivenza dello schema educativo esistente in costanza di matrimonio. (Tribunale
di Firenze, 14-06-2005, n. 2384), pur in presenza di conflittualità tra i genitori
(Tribunale Napoli, 18-01-2005 - Tribunale Viterbo, 14-06-2004) purché ciò non fosse di
ostacolo alla comune gestione della vita del figlio.

Peraltro è opportuno sottolineare che anche per i sostenitori della seconda tesi,
l’interesse preminente del minore rappresenta comunque l’elemento cardine per poter
valutare l’opportunità di un affidamento congiunto; se un semplice e non patologico
conflitto tra i genitori, non giustifica un provvedimento di diniego alla richiesta di
affidamento congiunto, un conflitto esasperato che si traduca in completa
incomunicabilità o in un clima tale da recare irreversibile pregiudizio ai figli è motivo
sufficiente per disporre l’affidamento esclusivo.

Ritengo personalmente che la differenza sostanziale tra i due orientamenti risieda
semplicemente nel fatto che mentre i primi affermano che l’affidamento esclusivo
debba rappresentare la regola cardine, da derogare solo in ipotesi eccezionali ed in
presenza di condizioni di assoluto accordo ed armonia tra i coniugi, i secondi, al
contrario, sostengono che l’affidamento congiunto debba rappresentare la regola di base
sul presupposto che tale forma tuteli maggiormente l’interesse dei figli,.

E’ agevole intuire come prima della riforma dell’articolo 155 del codice civile, la prima
tesi fosse quella prevalente, in considerazione del fatto che le ipotesi di affidamento
congiunto nella pratica rappresentavano una eccezione.

Oggi con la riforma le cose dovrebbero cambiare e gli elementi ostativi ad un
provvedimento di affidamento congiunto dovrebbero risiedere in situazioni eccezionali,
tali da sconsigliare, nell’interesse primario del figlio, il ricorso ad un affidamento
congiunto. Ad esempio il trasferimento di un genitore all’estero, il sopraggiungere di
una malattia mentale, una situazione di estrema conflittualità tra il figlio ed un genitore,
potrebbero essere quegli elementi eccezionali tali da giustificare, con provvedimento
motivato, il ricorso all’affidamento esclusivo. Altrimenti la riforma dell’articolo 155 del
codice civile resterebbe una lettera morta.

Avv. Matteo Santini

Si riporta il nuovo testo dell’articolo 155 del codice civile

Art. 155 - Provvedimenti riguardo ai figli

[1] Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di
mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura,
educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli
ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.

[2] Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la
separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con
esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la
possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a
quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza
presso ciascun genitore, fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi
deve contribuire al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione dei figli.
Prende atto, se non contrari all'interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori.
Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole.


[3] La potestà genitoriale è esercitata da entrambi i genitori. Le decisioni di maggiore
interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute sono assunte di
comune accordo tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle
aspirazioni dei figli. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice.
Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può
stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.

[4] Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori
provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice
stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare
il principio di proporzionalità, da determinare considerando:

1) le attuali esigenze del figlio;

2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;

3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore;

4) le risorse economiche di entrambi i genitori;

5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.

[5] L'assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro
parametro indicato dalle parti o dal giudice.

[6] Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino
sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia
tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti
diversi

L’assegno di mantenimento

Avv. Matteo Santini – Dott.ssa Beatrice Maiolini

L’assegno di mantenimento è un istituto previsto dal Codice civile all’articolo 156, secondo cui “il
giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a carico del coniuge cui non sia addebitabile la
separazione, il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento,
qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.

Per comprendere a pieno la ratio dell’istituto occorre innanzitutto rilevare che la separazione ha
carattere temporaneo, ben potendo i coniugi decidere di riconciliarsi. È proprio questo carattere di
“precarietà” che non fa venir meno quanto disposto dall’articolo 143 c.c. e che, quindi, permette di
considerare ancora esistente un vincolo di solidarietà morale e materiale che lega i coniugi, anche se
giudizialmente separati.

In secundis, il legislatore, nell’introdurre la disposizione di cui all’articolo 156, ha posto particolare
attenzione a ciò che, fino a pochi decenni fa, avveniva nella prassi di molte famiglie italiane:
frequentemente, di fatti, un coniuge, e segnatamente la moglie, era solito rinunciare alle sue
aspirazioni lavorative e di crescita professionale per concentrarsi unicamente sull’educazione dei
figli e sull’andamento “domestico”. In quest’ottica il legislatore ha, correttamente, ritenuto di
salvaguardare il soggetto che avesse effettuato, d’accordo con il coniuge, una simile scelta e di
permettergli, in caso di separazione, di non dover subire unicamente egli stesso gli effetti
pregiudizievoli di tale decisione.

Venendo ai presupposti che devono concorrere affinché il giudice si determini a concedere
l’assegno di mantenimento, essi sono tre (Cass. Civ. 12.12.2003 n. 19042; Cass. Civ. 18.09.2003 n.
13747; Cass. Civ. 08.08.2003 n. 11965; Cass. Civ. 19.03.2003 n. 4039):

- la non addebitabilità della separazione al coniuge nel cui favore viene disposto il
mantenimento;
- la mancanza per il beneficiario di adeguati redditi propri;
- la sussistenza di una disparità economica tra i due coniugi.

Occorre concentrarsi su cosa il legislatore abbia inteso parlando di “reddito”. Certamente il termine
reddito è stato utilizzato nella sua accezione più ampia. Il riferimento va, innanzitutto, al denaro ma
si intendono comprese anche altre utilità differenti dal denaro, purché economicamente valutabili
(Cass. Civ. 03.10.2005 n. 19291; Cass. Civ. 06.05.1998 n. 4543; Cass. Civ. 30.01.1992, n. 961). A
titolo esemplificativo, il giudice dovrà tener conto anche dei beni immobili posseduti, sia dal punto
di vista del valore implicito che essi hanno, sia dal punto di vista del ricavato di una eventuale


locazione o vendita degli stessi; dei crediti di cui il coniuge obbligato sia ancora titolare; dei
risparmi investiti o produttivi; della disponibilità della casa coniugale etc…( sull’argomento vedi
Cass. Civ. 29.11.1990 n. 11523; Cass. Civ. 20.02.1986 n. 1032, Cass. Civ. 14.08.1997 n. 7630;
Cass. Civ. 04.04.1998 n. 3490).

La reale difficoltà nell’applicazione di questo articolo risiede nell’esigenza di trovare un parametro
in base al quale valutare l’inadeguatezza dei redditi propri di un coniuge.

Per molto tempo si è ritenuto che il fondamento per l’erogazione dell’assegno di mantenimento
fosse la necessità di assicurare al coniuge beneficiario un tenore di vita pari o almeno simile a
quello che possedeva in costanza di matrimonio.

Una impostazione di tale tipo era soggetta a diverse critiche e perplessità.

Innanzitutto, la prima è di ordine logico – pratico: ben si sa che la convivenza ha riflessi
economicamente positivi. Vi è, di fatti, la possibilità di ammortizzare le spese, di dividerle
equamente. Il mantenimento di un determinato tenore di vita risulta certamente più facile se a
contribuire alle casse del nucleo familiare vi sono due soggetti, con due stipendi che si cumulano.

Nel caso di separazione, certamente le spese si raddoppiano: basti pensare alla necessità, per il
coniuge che non benefici della casa coniugale, di cercarsi una nuova sistemazione, con le
conseguenti spese per l’affitto e per la gestione dell’alloggio. È ovvio che, in una situazione di tale
tipo, caratterizzata da un sicuro aumento delle spese, non sarà facilmente ipotizzabile la possibilità
di mantenere lo stesso standard di vita che si aveva in regime di comunione. E questo vale sia per il
coniuge obbligato che per il coniuge beneficiario. Se si accetta questa ricostruzione, non si può non
notare come sarebbe eccessivamente penalizzante per il coniuge obbligato assicurare al coniuge
beneficiario il medesimo stile di vita che si aveva durante il matrimonio.

Inoltre, si devono considerare le ipotesi in cui i coniugi, in costanza di matrimonio, avevano un
tenore di vita eccessivo rispetto alle proprie possibilità: anche in questa ipotesi sarebbe
depenalizzante imporre al coniuge obbligato di assicurare che il coniuge beneficiario conservi il
medesimo tenore di vita, proprio perché eccessivo.

Ancora, ben può accadere che i coniugi decidano di avere un tenore di vita ridotto, minore alle
proprie potenzialità, per esempio investendo e risparmiando capitale; in questa ipotesi, la regola del
mantenimento del medesimo tenore di vita suona quanto mai iniqua, in questo caso a sfavore del
coniuge beneficiario (Cass. Civ. 04.04.1998 n.3490).

La giurisprudenza, in tempi recenti, ha provveduto a individuare un parametro di riferimento
sicuramente più corretto; “il giudice di merito deve anzitutto accertare il tenore di vita dei coniugi
durante il matrimonio, per poi verificare se i mezzi economici a disposizione del coniuge gli
permettano di conservarlo indipendentemente dalla percezione di detto assegno e, in caso di esito


negativo di questo esame, deve procedere alla valutazione comparativa dei mezzi economici a
disposizione di ciascun coniuge al momento della separazione” (Cass. Civ. 12.06.2006 n. 13592).

Quindi, il punto di osservazione da cui parte il giudice nel determinare l’an e il quantum
dell’assegno si modifica: non si cerca più di assicurare il mantenimento delle medesime condizioni
economiche ma si cerca di “equilibrare” le effettiva capacità economiche dei coniugi; si deve,
perciò, in primis verificare se sussiste un disequilibro economico tra i due coniugi; laddove tale
squilibrio effettivamente ci sia, il giudice determina il quantum più idoneo per livellarlo.

Proprio a tal fine, è risultato utile quanto disposto dal secondo comma dell’art. 156 che impone al
giudice di determinare l’entità dell’assegno in relazione, oltre che al reddito, anche alle
“circostanze”. Ed è proprio grazie a questo termine che il giudice può valutare una serie di elementi
fattuali che, anche se non propriamente reddituali, hanno comunque capacità di influire sul reddito
di una delle parti (vedi, per esempio, la circostanza dell’aumento delle spese fisse) (Cass. Civ.
30.03.2005 n. 6712). Un esempio su tutti: l’attitudine a lavorare è sicuramente una circostanza che
il giudice deve valutare, nel senso che, laddove il coniuge beneficiario sia nella concreta possibilità
di svolgere un’attività lavorativa retributiva (tenendo in considerazione l’età, la situazione del
mercato del lavoro del luogo in cui vive il coniuge, l’esperienza lavorativa o professionale
pregressa, il tempo intercorso dall’ultima prestazione di lavoro, la situazione di salute del
medesimo, i condizionamenti posti dalla cura e dalla crescita della prole) tale circostanza andrà ad
incidere sulla quantificazione dell’assegno, certamente comportando un decremento dello stesso
(Cass. Civ. 02.07.04 n. 12121; Cass. Civ. 19.03.2002 n. 3975).

Naturalmente non si richiede una valutazione aritmetica dei redditi ma solo una analisi volta ad
accertarne l’ammontare complessivo approssimativo, un’attendibile ricostruzione delle situazioni
patrimoniali di entrambi i coniugi (Cass. Civ.28.04.2006 n.9878; Cass. Civ. 19.03.2002 n. 3974;
Cass. Civ. 09.03.1998 n. 2583). In questa analisi, il giudice dovrà tenere conto anche di eventuali
maggiorazioni o diminuzioni che il patrimonio del coniuge obbligato ha subito nelle more del
giudizio di separazione, proprio perché, come già accennato, la separazione personale non fa venir
meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio e che comporta la
condivisione delle reciproche fortune e sfortune (Cass. Civ. 07.02.2006 n. 2626; Cass. Civ.
24.12.2002 n. 18327; Cass. Civ. 03.12.2002 n. 17103; Cass. Civ. 11.09.1998 n. 9028; Cass. Civ.
22.04.1998 n. 4094).

In merito all’accertamento che deve condurre il giudice, il coniuge beneficiario non ha l’onere di
fornire all’organo giudiziario la prova specifica e diretta del disequilibrio atto a giustificare
l’erogazione dell’assegno, essendo sufficiente che deduca anche implicitamente tale differenza
economica. Naturalmente il coniuge obbligato ha la possibilità di contestare il preteso squilibrio,


indicando beni e proventi che evidenzino l’infondatezza della domanda (Cass. Civ. 27.08.2004 n.
17136).

Nel caso in cui i coniugi non forniscano gli elementi necessari e sufficienti affinché il giudice
svolga l’indagine su descritta, si ritiene possa applicarsi, stante l’identità di ratio tra i due istituti,
quanto previsto dall’art. 5, comma 9, L. 898/70, nel testo novellato dall’art. 10 della L. 74/1987,
secondo cui, in tema di riconoscimento e determinazione dell’assegno divorziale, “in caso di
contestazioni, il tribunale dispone indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo
tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria” (Cass. Civ. 17.05.2005 n.
10344).

Si discute, sia in dottrina che in giurisprudenza, sulla rinuziabilità o meno dell’assegno di
mantenimento. Da un lato, di fatti, vi è chi sostiene che l’assegno di mantenimento trova il suo
fondamento nell’articolo 143 c.c. e, quindi, rientra tra i diritti e doveri dei coniugi inderogabili e,
pertanto irrinunciabili. Ne consegue la nullità di qualsiasi pattuizione tramite la quale il coniuge, pur
trovandosi nelle condizioni per beneficiare di detto assegno, vi abbia rinunciato.

Dall’altro lato, si sostiene che, così come i coniugi sono liberi di determinare il quantum
dell’assegno, sono parimenti liberi di escludere pattizziamente la corresponsione dello stesso.

Ad avviso di chi scrive, una probabile risposta si può ricavare analizzando la distinzione tra assegno
alimentare e assegno di mantenimento; mentre il primo, avendo la propria fonte nell’incapacità del
coniuge che versa in stato di bisogno e che non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, è
espressamente irrinunciabile ex art. 447 c.c., il secondo, stante la mancanza di previsione espressa e
la matrice assistenziale inerente al vincolo coniugale, si caratterizza dalla rinunciabilità. Possono,
quindi, i coniugi decidere di non corrispondere alcun assegno di mantenimento, così come decidere
di non corrisponderlo con periodicità ma versarlo una tantum, in un'unica soluzione. (Cass. Civ.
30.07.1997 n. 7127).

Da ultimo, l’articolo 5, comma 7, della legge 1 dicembre 1970 n. 898 (come modificato
dall’articolo 10 della Legge 6 marzo 1987 n. 74), che ha introdotto la necessità di adeguamento
ISTAT dell’assegno di divorzio, si ritiene sia applicabile anche all’assegno di mantenimento (Cass.
Civ. 05.08.2004 n. 15101; Cass. Civ. 06.12.1999 n. 13610; Cass. Civ. 28.12.1995 n. 13131).

ASSEGNO DIVORZILE

L’assegno divorzile è stato introdotto con la legge 898 del 1970; l’articolo 5, così come modificato
dalla L. 74 del 1987, di fatti, prevede che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la
cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi,
delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla
conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito
di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio,
dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno,
quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni
oggettive”.

Innanzitutto occorre chiarire che il quantum dell’assegno di divorzio è determinato in base a criteri
autonomi e distinti rispetto a quelli rilevanti per il trattamento economico del coniuge separato
(Cass. Civ. 20.01.2006 n. 1203). Quindi, ai fine della quantificazione di detto assegno, risulta essere
del tutto irrilevante la misura dell’assegno di mantenimento determinata in sede di separazione,
posto che i presupposti e le funzioni sono diverse (Cass. Civ. 09.05.2002 n. 6641).

A tale proposito, la Suprema Corte ha chiarito che “la determinazione dell’assegno di divorzio, alla
stregua dell’art. 5 l. 1 Dicembre 1970 n. 898, modificato dall’art. 10 l. 6 Marzo 1987 n. 74, è
indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra le parti e in virtù di decisione
giudiziale, in vigenza di separazione dei coniugi, poiché, data la diversità delle discipline
sostanziali, della natura, struttura e finalità dei relativi trattamenti, correlate e diversificate
situazioni, e delle rispettive decisioni giudiziali, l’assegno divorzile, presupponendo lo scioglimento
del matrimonio, prescinde dagli obblighi di mantenimento e di alimenti, operanti in regime di
convivenza e di separazione, e costituisce effetto diretto della pronuncia di divorzio, con la
conseguenza che l’assetto economico relativo alla separazione può rappresentare mero indice di
riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire elementi utili di valutazione” (Cass. Civ.
11.09.2001, n. 11575).

Anche per detto assegno, la finalità perseguita dal legislatore è stata marcatamente assistenziale, e
cioè far si che le condizioni economiche del coniuge più debole non risultino deteriorate per il solo
effetto del divorzio. Il legislatore ha, in sostanza, preso in considerazione l’ultrattività della
solidarietà familiare e qualora, comparando la posizione attuale del richiedente l’assegno divorzile
con quella goduta al tempo della costanza di matrimonio, emerga una situazione economicamente
sperequativa e significativa, ricollegabile alla cessazione del matrimonio stesso, proprio in virtù


della sua funzione assistenziale, ha considerato dovuto l’assegno di divorzio (Cass. Civ. 11.09.2001,
n. 11575).

Per meglio comprendere questo assunto, occorre fare un passo indietro, analizzando le principali
teorie in vigore prima della legge 74 del 1987.

Il legislatore del 1970 non si era espresso in proposito e la giurisprudenza aveva cercato di colmare
questa lacuna, individuando una pluralità di criteri per l’attribuzione e la quantificazione
dell’assegno divorziale (Cass. Civ. 09.07.1974 n. 2008; Corte Cost., 10.07.1975 n. 202). Accanto al
profilo assistenziale, si individuava il profilo risarcitorio e il profilo compensativo dell’assegno di
divorzio. Se, da un lato, tale pluralità di orientamenti aveva l’elemento positivo di permettere di
adattare la funzione di tale erogazione pecuniaria ai diversi casi pratici, dall’altro lato portava con se
l’inconveniente di lasciare eccessiva discrezionalità ai Tribunali, che troppo spesso arrivavano a
soluzioni diametralmente opposte.

Per ovviare a tale incertezza, il legislatore del 1987 decise di chiarire espressamente i presupposti
relativi all’an debeatur l’assegno di divorzio. Indica espressamente, nell’art. 10 di tale legge, che
l’assegno va corrisposto quando un coniuge non ha mezzi adeguati o comunque non può
procurarseli per ragioni oggettive. Si afferma, quindi, definitivamente, la natura assistenziale
dell’assegno divorzile.

Comunque le incertezze interpretative permangono, spostandosi stavolta sui concetti di “mezzi
adeguati” e “ragioni oggettive”.

Anche in questo settore, la giurisprudenza sembra aver seguito un iter molto simile a quello già
analizzato in materia di separazione e assegno di mantenimento.

Di fatti, le prime pronunce giurisprudenziali tendevano a considerare quale parametro rilevante il
tenore di vita in costanza di matrimonio, ritenendo quindi dovuto l’assegno ogni qualvolta il
divorzio avesse inciso su di un coniuge apportando una riduzione (anche quantitativamente minima)
del proprio standard di vita, rispetto a quello goduto durante il matrimonio (Cass. Civ. 17.03.1989
n. 1322; Cass. Civ. 29.11.1990 n. 11490).

Solo in tempi relativamente recenti si è, correttamente, modificato tale orientamento: l’assegno di
divorzio, stante proprio la sua funzione assistenziale, serve a tutelare l’ex coniuge che si trovi in una
debolezza economica tale da non potersi permettere un tenore di vita autonomo e dignitoso, anche
se totalmente distaccato da quello che si aveva in costanza di matrimonio (Cass. Civ. 12.03.1990 n.
1652; Cass. Civ. 01.12.1993 n. 11860).

Quindi, la prima valutazione che il giudice è chiamato a fare riguarda l’an e ruota attorno
all’inadeguatezza dei mezzi, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi,
cespiti patrimoniali e altre utilità di cui si dispone il coniuge richiedente (Cass. Civ. 15.01.1998 n.


317) e all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Laddove tale valutazione dia esito
positivo (inteso nel senso su esposto, e cioè lasci presumere che il coniuge istante non possa
assicurare a sé un tenore di vita dignitoso), il giudice deve procedere a determinare il quantum,
prendendo a riferimento i criteri indicati dal legislatore e cioè “le condizioni dei coniugi, le ragioni
della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e
alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, il reddito di entrambi, e valutati
tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”.

Altro aspetto da valutare è quello relativo alla disponibilità dell’assegno di divorzio.

L’ipotesi classica che si verifica con una certa costanza riguarda il caso in cui i coniugi, con un
accordo ad hoc, decidano di regolare il regime giuridico – economico del futuro ed eventuale
divorzio.

È opportuno ripercorre la posizione della giurisprudenza antecedentemente alla novella del 1987.

Dapprima, proprio basandosi sulla natura composita dell’assegno divorzile, le Corti di merito e di
legittimità riconoscevano la disponibilità del diritto di credito insito nell’assegno de quo, almeno nei
casi in cui la funzione di tale assegno fosse risarcitoria o compensativa (Cass. Civ. 18.05.1983 n.
3427; Cass. Civ. 03.07.1980 n. 4223).

È con la novella del 1987 che la giurisprudenza cambia radicalmente orientamento e ciò in
conseguenza all’affermazione della natura esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio.

Si sancisce una radica indisponibilità preventiva dei diritti economici conseguenti allo scioglimento
del matrimonio, con un itinerario argomentativo decisamente vasto (Cass. Civ. 20.03.1998 n. 2945;
Cass. Civ. 11.06.1997 n. 5244; Cass. Civ. 07.09.1995 n. 9416; Cass. Civ. 28.10.1994 n. 8912) .

L’orientamento più risalente (Cass. Civ. 04.06.1992 n. 6857), raramente presente però anche in
sentenze più recenti (Cass. Civ. 14.06.2000 n. 8109), si basava sull’articolo 160 c.c. che sancisce la
totale indisponibilità dei diritti e doveri che scaturiscono dal matrimonio. Da tale indisponibilità
conseguiva la totale nullità degli accordi preventivi, proprio perché vertenti su diritti indisponibili.

In secundis, si affermava che, comunque, in forza dell’art. 9 l. 898 del 1970, i coniugi avessero già
assicurata la possibilità di revocare o modificare l’assegno post – matrimoniale, subordinatamente
all’esistenza di “giustificati motivi”; tale articolo fornisce già una tutela specifica, volta a rivedere
le disposizioni economiche pattuite, rendendo “inutile” il ricorso ad accordi pre – divorzio (Cass.
Civ. 04.06.1992 n. 6857).

Da ultimo, si è sostenuto che “ gli accordi preventivi possono condizionare il comportamento delle
parti non solo per i profili economici preconcordati ma – quando sono accettati in funzione di
prezzo o contropartita per il consenso al divorzio – anche per quanto attiene alla volontà stessa di


divorziare” (Cass. Civ. 18.02.2000 n. 1810); si tratterebbe, in sostanza, di un accordo tendente a
configurare una “transazione sullo status matrimoniale” (Cass. Civ. 11.06.1997 n. 5244).

Ancora, “gli accordi preventivi tra i coniugi sul regime economico del divorzio hanno sempre
l’effetto, se non anche lo scopo, di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio
concernente uno status; in una sfera, cioè, in cui la libertà di scelta ed il diritto i difesa esigono
invece di essere indeclinabilmente garantiti” (Cass. Civ. 11.08.1992, n. 9494; Cass. Civ.
28.10.1994 n. 8912; Cass. Civ. 13.01.1993 n. 348; Cass. Civ. 07.09.1995 n. 9416; Cass. Civ.
11.06.1997 n. 5244; Cass. Civ. 20.03.1998 n. 2955)

Tornando all’articolo 5 L. 898/70, occorre analizzare quanto disposto dal penultimo comma
secondo cui “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere
corrisposto, passa a nuove nozze”. La ratio di tale disposizione è evidente: la funzione assistenziale
dell’assegno di divorzio viene meno ogni qualvolta in cui il coniuge beneficiario contragga un
nuovo matrimonio, proprio perché in questa ipotesi i medesimi doveri di solidarietà morale ed
economica slittano in capo al nuovo coniuge.

Un problema particolarmente interessante ed attuale è quello relativo all’applicabilità in via
analogica di quanto disposto da tale comma in caso di convivenza more uxorio.

Le Corti di legittimità hanno ormai consolidato l’orientamento secondo cui, se una convivenza
avente carattere di stabilità e durevolezza non vale ad escludere di per sé la debenza dell’assegno,
vale almeno ad incidere sulla determinazione del quantum: “il diritto all’assegno di divorzio non
viene meno se chi lo chiede abbia istaurato una convivenza more uxorio con altra persona,
rappresentando detta convivenza soltanto un elemento valutabile al fine di accertare se la parte che
richiede l’assegno disponga o meno di mezzi adeguati rispetto al tenore di vita goduto in costanza
di matrimonio” (Cass. Civ. 26.01.2006 n. 1546). Tale ricostruzione trova la sua giustificazione nel
fatto che la semplice convivenza ha natura intrinsecamente precaria, non fa sorgere obbligo di
mantenimento e non presenta quella stabilità giuridica propria del matrimonio che giustifica la
cessazione definitiva dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile.

Ancora “in assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all’assegno di divorzio, in linea di principio,
di per sé permane anche se il richiedente abbia istaurato una convivenza more uxorio con altra
persona, salvo che sia data la prova, da parte dell’ex coniuge, che tale convivenza ha determinato
un mutamento in melius – pur se non assistito da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto
adeguatamente consolidatosi e protrattosi nel tempo – delle condizioni economiche dell’avente
diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento ad opera del convivente o, quanto meno, di
risparmi di spesa derivategli dalla convivenza, onde la relativa prova non può essere limitata a
quella della mera instaurazione e della permanenza di una convivenza siffatta, risultando detta


convivenza di per sé neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche dell’istante e
dovendo l’incidenza economica della medesima essere valutata in relazione al complesso delle
circostanze che la caratterizzano, laddove una simile dimostrazione del mutamento in melius delle
condizioni economiche dell’avente diritto può essere data con ogni mezzo di prova, anche
presuntiva, soprattutto attraverso il riferimento ai redditi e al tenore di vita della persona con la
quale il richiedente l’assegno convive, i quali possono far presumere, secondo il prudente
apprezzamento del giudice, che dalla convivenza more uxorio il richidente tragga benefici
economici idonei a giustificare il diniego o la minor quantificazione dell’assegno” (Cass. Civ.
20.01.2006 n. 1179).

Quindi, di fatto, la semplice convivenza non basta ad escludere l’obbligo di corrispondere l’assegno
di divorzio: tuttavia, se da tale convivenza ne deriva per l’ex coniuge beneficiante un miglioramento
sostanziale, che si risolve in una fonte effettiva e non aleatoria di reddito (Cass. Civ. 06.02.2004 n.
2251), si può allora procedere alla revisione del quantum dell’assegno, ex art. 9 l. 898/70, così come
modificato dall’art. 13 L. 87/74 e, in casi estremi, quando cioè, proprio a seguito di tale convivenza
la condizione economica dell’ex coniuge ha raggiunto livelli di autonomia e dignità, si può arrivare
alla revoca dell’obbligo di corresponsione dell’assegno (Cass. Civ. 03.11.2004 n. 21080).

Venendo al comma 8 dell’art. 5 L. 898/70, così come modificato dall’art. 10 L. 74/87, esso dispone
che “su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia
ritenuta equa dal Tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di
contenuto economico”. La previsione, in alternativa di una corresponsione mensile soggetta a
rivalutazione periodica, di un assegno una tantum, era già presente nella legge del 1970 ma, con la
novella del 1987, viene inserita in un comma autonomo. Il testo originario dell’art. 5, al comma 4
prevedeva che, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile poteva avvenire in
una unica soluzione. La novità maggiore apportata dalla novella del 1987 riguarda l’introduzione
dell’inciso “ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale”. Il legislatore ha ritenuto necessario, quindi,
un controllo giudiziale sull’entità dell’assegno di divorzio in una unica soluzione, una sorta di
omologazione da parte del Tribunale. Non è più, quindi, sufficiente il solo accordo delle parti: una
volta raggiunta una soluzione pattizia, gli ex coniugi devono necessariamente sottoporre la stessa al
vaglio del Tribunale.

Laddove però il Giudice, anche sulla base di una valutazione equitativa, dia il proprio assenso, il
coniuge beneficiario non potrà vantare ulteriormente diritto alcuno di stampo patrimoniale e non,
attesa la cessazione, per effetto del divorzio, di qualsiasi rapporto con l’ex coniuge (Cass. Civ.
27.07.1997 n. 7365).


Il comma 9 dell’art. 5 dispone che “i coniugi devono presentare all’udienza di comparizione avanti
al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai
loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni, il tribunale dispone
indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della
polizia tributaria”. Quindi, sono le parti, in rispetto del principio di leale collaborazione, a dover
fornire al Tribunale gli elementi reddituali necessari per poter determinare correttamente il quantum
dell’assegno divorzile. La prova del reddito può essere data, oltre che con la documentazione
prevista dalla norma stessa, con qualsiasi mezzo, compresa la presunzione (Cass. Civ. 23.01.1996 n.
496). La dichiarazione dei redditi, quindi, costituisce solo uno degli strumenti attraverso i quali il
giudice può determinare il proprio convincimento, sia pure privilegiato dalla legge (Cass. Civ.
09.05.1997 n. 4067).

Lo stesso comma prevede anche poteri istruttori d’ufficio, previsti per soddisfare al meglio le
finalità pubblicistiche sottese alla domanda sull’assegno e per evitare che questa venga respinta
quando il richiedente non riesca a dimostrarne il buon fondamento (Cass. Civ. 03.07.1996 n. 6087).

Naturalmente tali poteri rimangono comunque subordinati alla disponibilità delle parti: è necessaria
la contestazione mossa da un coniuge circa la sufficienza e la veridicità, ai fini della decisione, della
documentazione presentata dall’altro coniuge. Ne consegue che l’acquiscenza della parte
interessata, che non contesti le risultanze e la completezza di detta documentazione, preclude alla
medesima di dedurre in sede di impugnazione il mancato uso di tali poteri da parte del Tribunale
(Cass. Civ. 08.11.1996 n. 9756). Se, comunque, il giudice ritiene che gli elementi forniti dalle parti
siano sufficienti per una valida ricostruzione delle loro situazioni reddituali, non è tenuto, anche in
caso di contestazioni, ad utilizzare tali poteri istruttori ufficiosi, che restano quindi nella totale
discrezionalità dell’organo giudicante, trattandosi di un potere – dovere del tribunale. (Cass. Civ.
10.08.2001 n. 11059; Cass. Civ. 15.01.1999 n. 370; Cass. Civ. 26.05.1999 n. 5095).

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